Calde stagioni e violente contese dei "coloni" della fiumara

La fiumara sottostante il paese vecchio, il cui nome subisce una metamorfosi continua man mano che nel suo tortuoso percorso attraversa località diverse, come Carbone, Mella o Pietrangelo, è stata da secoli un’importante risorsa per la popolazione, assicurando l’irrigazione delle coltivazioni impiantate sulle sue sponde e consentendo anche di sfruttare l’energia potenziale delle sue acque per il funzionamento di diversi mulini. Ma essendo un corso d’acqua a carattere torrentizio, durante il periodo estivo la sua portata diminuiva notevolmente fino a ridursi, a volte, in un esile rigagnolo che, soprattutto nel tratto intermedio, cercava di farsi strada tra l’ombra dei canneti. Proprio in questa stagione scoppiavano frequentemente delle vere e proprie risse per il possesso dell’acqua che a volte sfociavano in veri e propri drammi.

Dentro lo scorrere inesorabile della fiumara, restano quindi racchiuse le storie di un mondo arcaico ormai scomparso che solo i sassi di granito levigati dalle sue acque, come silenziosi testimoni, hanno conosciuto nel corso dei secoli.

I processi della Gran corte criminale, i cui fascicoli sono conservati presso l’Archivio di Stato reggino, ma anche le sentenze della Pretura di Gallina, possono però aiutarci a fare un po’ di luce su alcuni dei fatti accaduti nelle torride estati dell’Ottocento, tra i contorni di un paesaggio irregolare e dai colori eterogenei, tra il canto delle cicale e il ritmo cadenzato dello sciabordio dei panni sbattuti dalle donne, tra la nimarra, le sanguisughe e le bisce lunghe e nere, tra nomi di luoghi che le nuove generazioni non conoscono più e gli anziani fanno fatica a ricordare.

17 agosto del 1844

Demetrio Libri si era recato al torrente per irrigare un terreno di proprietà di Ettore Melacrino che egli coltivava, come la maggior parte dei suoi paesani, in base ad un contratto di colonia. Al fine di poter “accomodare” con la sua zappa, il condotto dell’acqua che sarebbe servita a tale scopo, si era però introdotto, senza chiederne il consenso, in un podere che teneva anche in colonia Giorgio Crucitti.

La moglie di quest’ultimo, Lucrezia Varvaro, infastidita dalla baldanza del Libri, incominciò ad istigare il marito che, trovandosi a poca distanza, con un’arma da fuoco a canne lunghe accorse subito sul luogo, e col calcio del fucile lo percosse violentemente. Non contento di ciò trasse poi dallo zaino un coltello macellaresco, col quale assestò diversi colpi alla vittima cagionandogli una ferita nella regione dorsale destra, mentre la fidanzata Maria D’amico, testimone oculare di quanto stava accadendo, con le sue dichiarazioni contribuì alla condanna del Crucitti che dovette scontare quattro mesi di detenzione.

Estate 1862

Domenico Lucisano di anni 30, calzolaio nato a S. Stefano ma residente a Mosorrofa testimoniava davanti ai Giudici che, nella qualità di colono, possedeva da più anni un fondo nella contrada Fornace, alberato di gelsi, fichi ed altro, sementato a fagioli, il cui diritto dominio apparteneva però ad un altro membro della famiglia Melacrino. Da tempo immemorabile aveva utilizzato le acque del “fiume di Mosorrofa”, senza mai essere molestato da alcuno, godendo del diritto di irrigazione, esercitato ogni qualvolta il bisogno lo avesse richiesto. Ma nella stagione estiva corrente il suo compaesano Nicola Crucitti, il cui fondo si trovava limitante poco più sopra in località Oliveto, si era permesso di impedirglielo, pretendendo che costui gli pagasse alcune somme. Nonostante le minacce il Lucisano aveva comunque dirottato le acque per il ripetuto podere. A quel punto il detto Crucitti, si portò in quel luogo, percuotendolo col dorso di una scure che gli causò diverse contusioni.

Tra i precedenti penali dell’imputato vanno annoverati alcuni reati forestali per aver abbattuto dei faggi in località Vizzanola subendo due mesi di prigione e per aver abbattuto dei pini del valore di 129 ducati a danno del comune di Cataforio

Luglio 1859

Nel momento in cui le acque del “fiume di Mosorrofa” scorrevano nel fondo di Sebastiano Iero, sito in contrada Campicello dove si stava eseguendo l’irrigazione delle piante in esso esistenti, vennero deviate da Demetrio Nicolò che le indirizzò nel sottoposto podere dove nel frattempo la moglie si occupava di adacquare il terreno coltivato. Dopo varie denunce venne condannato ad un mese di prigione più le spese del giudizio.

Fine agosto 1853

Essendo Pasquale Bova, mugnaio di un mulino situato nella fiumara di Mosorrofa e vedendo che il flusso dell’acqua che serviva ad animarlo si era bruscamente interrotto, incominciò a dirigersi verso la parte superiore per individuarne la causa. Vedendo che Salvatore Libri irrigava un suo fondo tenuto in colonia,  non rispettando la turnazione concordata, diede inizio ad un alterco in cui ognuno dei due cercava di far prevalere le proprie ragioni. Il Bova, avendo con sè una zappa, lo colpì ripetutamente, provocando delle ferite alla regione frontale sinistra, come testimoniato da Cristofaro Labate e da altre persone che erano giunti sul luogo. La madre dell’imputato, il quale sarà condannato dal Regio Giudice a due mesi di prigionia, sosteneva che il Libri si era meritato tutto ciò a causa della sua presunzione.

7 agosto 1849

Mentre Maria Morabito irrigava il fondo del sig. Paolo Margiotta di Reggio, sito lungo il torrente, nella contrada Carbone di cui era colona assieme al marito Giuseppe Chirico, la sua compaesana, Isabella Casile ne deviò le acque, convogliandole verso il suo orto. Dopo essere stata richiamata più volte per tale azione, la donna si era alquanto adirata e con parole minacciose invitava la Morabito ad avvicinarsi, casomai ne avesse avuto coraggio. La provocazione non fece altro che infiammare l’animo già esasperato e mentre stava per raggiungerla venne colpita alla testa da alcune pietre scagliate contro di essa dal fratello della Casile, minore di anni 12 che le causarono delle contusioni. Richiamato dai lamenti, il di lei marito incominciò ad inseguire il ragazzo scagliando anche egli a sua volta dei sassi che lo colpirono al torace. Durante Il processo celebrato presso la Pretura, Isabella Casile venne condannata ad un mese di esilio correzionale, il fratello a tre giorni di arresti domiciliari e Giuseppe Chirico ad un mese di confino presso l’allora comune di Pellaro.