Disposizioni testamentarie dei mosorrofani nel Seicento

Mettendo ordine tra i documenti sparsi che avevo trascritto presso l’Archivio di Stato di Reggio, mi sono imbattuto in diversi atti testamentari risalenti alla prima metà del Seicento in cui, alcuni abitanti del “casale” di Mosorrofa, preoccupati di sistemare per tempo il proprio patrimonio, dettano le loro ultime volontà ai notai della città di Sant’Agata operanti in quel periodo.

Dall’esame dei carteggi balza subito all’attenzione la presenza di cognomi e nomi oggi scomparsi, ma anche riferimenti toponomastici e interessanti informazioni, utili per una storia della sensibilità religiosa e della mentalità dell’epoca.

Nel 1613 Giovanni Cavalcanti lascia in eredità alla moglie Miliana Sorgonà una casa con giardinello a Mosorrofa. Vuole che il suo corpo sia seppellito dentro la venerabile chiesa di San Demetrio “con farli uno tambuto” e porlo ai piedi dell’altare di S. Vito.

Il culto di questo santo, di origine siciliana, martirizzato nel 303 durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, era diffuso anche nella vicina Calabria e, come vedremo più appresso, il suo nome come quello di Demetrio era presente a Mosorrofa tra i membri di alcune famiglie. Con ogni probabilità sopra l’altare in questione vi era una sua icona con I simboli che lo rappresentavano: la palma del martirio, il calderone dove sarebbe stato immerso e due docili cani, mentre il termine tambuto che significa bara, è di origine araba.  L’usanza, invece, di seppellire i cadaveri all’interno delle chiese, durò fino all’ editto di Saint Cloud e nel nostro paese proseguì anche oltre.

Cavalcanti dispone pure che si offrano “tre micanni di olio all’ecclesia di S. Dimitri acciò si accenda la lampada”, ossia il prezioso liquido, che veniva riversato in un vaso in vetro trasparente per l’alimentazione della fiamma. Era infatti consuetudine, lo vedremo anche questo analizzando i documenti successivi, da parte di alcuni fedeli occuparsi delle lampade del tabernacolo, offrendo il combustibile necessario.

Il micannu, era un’unità di misura per l’olio equivalente alla sesta parte di un cafiso (1 cafiso, 16 litri circa).

Il 17 marzo del 1618 Giacomo Mannarella della città di S. Agata, cappellano curato del casale di Misorifa, avendo inteso la confessione dell’inferma Perna Condello, sua parrocchiana, dichiara al notaio Nicola Alaface che essa aveva espresso il desiderio di lasciare per li boni servimenti, e per l’anima sua, la metà della casa solarata, ("casa con solaio", cioè avente un piano terra ed un primo piano) et un pede di cerasara in contrada Traclare (Tracale) a Francischella Panagia, sua nipote e, ai fratelli di quest’ultima, tra cui un certo Fabio, li nasidi beveraticci. In greco di Calabria nasida sta per isola, in questo caso piccolo appezzamento di terreno strappato al greto del torrente, oggi viene preferito il termine di “fiumarina”.

Nel 1620 Francischella Sgarli, figlia di Persio e Aurelia Condello, lascia a Colangelo Nicolò, suo marito, uno “suo loco arborato con olivare posto in contrada Casciaro,” che  limita con Giando Federico e Cola Ienari, ed in più l’altro terreno che era stato acquistato da  Sebastiano d’Amico, a condizione che il suo consorte  si obblighi “di dare ogni anno che viene piena l’annata d’ olive”, mezzo cafiso di olio bono, alla Parrocchia di detto casale, affinchè si accenda la lampada del Santissimo Sacramento per l’anima di essa testatrice, mentre tre quartuni di olio buono, siano destinati alla madre di essa, Aurelia.

Tra le altre clausole, vuole che dopo la sua morte, siano celebrati due trentali di messe di requie (sessanta messe) nella predetta chiesa, entro lo spazio di due anni. A tal proposito sono destinati sei ducati e mezzo. Un lascito piuttosto consistente che ci dice quanto fosse importante per la mentalità dell’epoca guadagnarsi, attraverso le messe di suffragio, una specie di “passaporto” per l’Aldilà.

Al coniuge vanno anche consegnati tre ducati e mezzo e gli annui aquili quattro (moneta in uso nel Regno di Napoli) che gli rendono da ”un luogo di casa, seu casaleno (con questo termine si intendeva una casa diroccata in rovina), posto in detto casale, che  limita con Antonino Vazzani  e la propria abitazione. Sempre a Colangelo va la metà del giardino “arborato di celsi et altri alberi fruttiferi e terre aratorie” situato in contrada S. Georgio, limitante con i beni del dottor Mariano Mazzone, Placido Condello “et altri fra loro, e l’altra integra mità del giardino resti per detta Aurelia”.

Per Tiberia Nicolò, sua figlia, viene invece confermata la metà della casa solarata che essa testatrice aveva a sua volta ereditato da una zia.

Nel testamento viene specificato che la terza parte della nasida che ha in dote essa testatrice, posta “nel fiume del casale di Mosorrifa”, è stata venduta e, grazie al denaro ricavato, ha potuto estinguere il debito  che aveva contratto Persio Sgarli, suo padre, nei confronti del barone  Basilio Mazzone, loro creditore (chi conosce la storia della vicina città di S. Agata sa benissimo che quest’ultimo aveva anche fama di usuraio).

“Lega e lascia” a Marianna Condello figlia di Demetrio, suo zio  due quattronate (unita di misura utilizzata un tempo nel reggino, corrispondente a mq. 1.144,27) di terre aratorie con una castagnara  che tiene in contrada Vigliana ed il resto con altri mobili e stabili “ne sia padrona e signora” Aurelia, sua madre .

Il 9 gennaio 1636, Grazia Megalizzi vedova di Terenzio Nicolò, la cui abitazione si trova vicino a quella di Cristofaro Bruno e Lorenzo Tripepi, inferma di corpo e giacente a letto, vuole che il suo cadavere sia seppellito nella chiesa di San Demetrio, sua parrocchia. Raccomanda l’anima a Dio, la Beatissima Vergine e S. Demetrio suo protettore. Tali invocazioni alle intercessioni celesti sono, nei testamenti dei mosorrofani, svuotate di significato religioso dal fatto di essere ripetute in modo stereotipato, insieme alle altre formule mistico-legali che costituiscono la parte “fissa” del testamento.

Dispone che tutti li suoi mobili e stabili, censi e qualsiasi altra cosa si faccia in tre parti uguali per ciascuno dei suoi figli: Paolo, Francesca e Antonino Nicolò.

Mentre la baracchella che quest’ultimo ha costruito nella testa della vigna in contrada Chiloni, dove prima era un canneto, “lo abbia lo detto Antonino di soprapiù” e venga stimata, assieme al terreno adiacente dall’agrimensore Vito Billa.

Nel documento si specifica che per lo predetto giardino e vigna et anco casa si pagano aquile quindici di censo l’ anno a  Georgio Bosurgi.

Infine “lega e lascia e così vuole che li suddetti Paolo et Antonino suoi figli” diano a Francesco, suo nipote la parte sua integra di tutto il mobile che essi hanno in loro potere e di quello che oggi si trova in casa di essa testatrice, senza defraudarlo di uno pilo di modo che lo faccino tre parti uguali e porzioni una per ciascheduno”.

In quest’ultima clausola, come in tutte le altre disposizioni che abbiamo fin qui riportato, colpisce l’uso ricorrente di termini in lingua volgare, se non addirittura in dialetto, a garanzia di una più esatta riproduzione delle volontà del testatore.