"Fora pesti du me paisi"

È la frase che segnò il racconto della liberazione di Mosorrofa dalla peste, durante un intervista al nostro onorato compaesano Onofrio Pristipino, e sono le parole con le quali vorrei incoronare questo racconto ricostruito grazie al contributo di numerosi di voi e donato ai lettori non prima di averlo un po’ colorito e reso accattivante alla lettura.

“La pioggia di ottobre ingrossava le fiumare della vallata e il Carbone era sull’orlo di straripare. Nelle nostre piccole case fatte di pietre e qualche avanzo di mattone il freddo era il pericolo più imminente anche se altri se ne stavano profilando. Dalla mulattiera che vien da Reggio giunse presso il calvario all’ ingresso dell’abitato una vecchia signora, portava abiti neri come la pece, dismessi e rappezzati da stoffe altrettanto scure, aveva un cappuccio nero come la notte senza luna e un sacco di juta sulle spalle grande quanto la schiena gli permetteva di portare. La pioggia scendeva copiosa e la donna come se quella non la bagnasse affatto percorreva il centro della stradina e si avvicinava al luogo sacro che come risaputo segna l’ingresso di un centro abitato. Noi nulla potevamo sapere né nulla potevamo immaginare di quello che stava per accadere. La vecchia si mise a slegare quel sacco che aveva chiuso con diversi nodi e prima di arrivare ad aprirlo ecco che la pioggia cessò e un bagliore divino accecò gli occhi della donna e illuminò tutto il suolo ancor umido. Dalla luce comparve un cavaliere magnifico, nelle vesti di un centurione romano, nella mano destra recava la bandiera vittoriosa che fu dei crociati, quella che reca il simbolo di Cristo. Il cavallo scalpitava e issò gli zoccoli anteriori come imbizzarrito, si impose in tutta la sua maestà davanti a quella nera e tetra anima. “Chi sei tu?” disse l’Uomo dall’alto del suo cavallo nero e al silenzio rispose: “ Lascia questa gente e torna da dove sei venuta prima che l’ira di Dio si abbatta su di te”. La guardò come si guarda il demonio e quella coprendosi il volto col cappuccio che era prima reclinato sulle spalle, rilegò il sacco e prese la via del ritorno. Il cavaliere che era il nostro amato Demetrio tuonò : “Fora pesti du me paisi!”

La pioggia era cessata, ma non ancora cessato era l’odio che coltivava quella vecchia. Credendo di illudere un essere al di sopra di lei, per un'altra strada discese verso il pianoro di Bufano e tra i millenari olivi nascosta dal favore delle tenebre riprese a slegare quel contenitore di morte. Una luce rifulse e il nostro cavaliere tornò più sfolgorante di prima.

 “ Donna io ti dissi di abbandonare queste terre e tu ancora perseguiti la mia pazienza, possa Dio perdonare il tuo animo maligno. Ti intimo per l’ultima volta,  non metter più piede in questo luogo che è sotto la mia tutela e protezione!”. Quella coltivò la sua astuzia e animata dal demonio risalì nel buio tetro della notte il corso del Carbone fino alla grande pietra che si bagna nelle sue acque. Lì convinta che quel masso l’avrebbe protetta, rintanata nell’oscurità, si accinse a compiere l’azione che il demonio aveva in lei ordinato, il compito per il quale era giunta nella nostra terra, un intento di morte che in quest’ultima istanza consisteva nel versare in quelle acque che servivano i mulini e soprattutto gli orti e le bocche della gente di Mosorrofa, l’arma letale della peste che portava in quel sudicio sacco. La morte era venuta fin dentro casa nostra ma una forza più grande avevamo in serbo. Nel mentre il male stava per avere la meglio ecco che in tutta la sua gloria, annunziato dal coro degli angeli e osannato da quello dei martiri, apparve il nostro Megalomartire Demetrio che nel santo nome di Dio e con la forza delle milizie celesti scaraventò nel fuoco dell’inferno quella diabolica strega e quel male che portava sulle spalle. Fu così che nessun bimbo pianse la madre, né le madri piansero i loro figli, nessun anziano, nessun essere, nessun uomo perì; mentre nel resto dei paesi non c’era posto per i cadaveri.”

Se la vicenda è reale o immaginaria non ci è dato saperlo, né possiamo conoscere il tempo in cui eventualmente si verificò. Ognuno di noi ne può trarre una personale interpretazione. Una verità è che tali leggende servivano a mantenere viva la socialità, le raccontava il nonno al nipote, la mamma ai figli e nutrivano la comunità di grande coesione. Disse Camus : “Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati.”   Tal sorpresa può servire a maturare qualcuno, può far venir fuori quella forza che collima con la rassegnazione. È  forse un ricettacolo di ricordi, legati a quei tempi storici che videro davvero la peste anche a Mosorrofa, insieme a sentimenti di anti-rassegnazione che hanno prodotto questo racconto per le future generazioni, fin ad arrivare a noi che nell’attualità della pandemia, ora più che mai, continueremo a custodirlo.