Furto e lesioni in contrada Manganelli

Nel lontano anno 1866 il 19 maggio tal Rosario Lupis esponeva formale querela nei confronti di Giorgio Crucitti, colono di un fondo di proprietà del sig. Sarlo di Reggio.

Descriveremo dapprima il fatto per poi procedere all’analisi della normativa penalistica del testo del 1859.

Il querelante verso le ore 6 del pomeriggio del 18 maggio di quell’anno si trovava su di un albero di gelso del fondo del sig. Sarlo sito in contrada Manganelli, al fine di cibarsi di mori, quando all’improvviso venne chiamato da tal Crucitti Giorgio- colono del predetto fondo- ed invitato a scendere da quell’albero.

L’imputato, essendosi recato nel fondo di contrada Manganelli e vedendo le cipolle mancanti, veniva informato dal sig. Cristofaro Labate, proprietario di un fondo vicino, che il querelante Rosario Lupis, persona dedita ai furti, si trovava in quel momento nel medesimo fondo sopra un gelso a cibarsi di mori. Il Crucitti pretendeva dal querelante che scendesse da quell’albero per portarlo nel luogo del furto al fine di verificarne che le orme lasciate corrispondessero con il suo piede.

Così descrive l’evento il Crucitti: “Siccome a tanto si è diniegato mi causò delle malcreanze, mi risentì e gli tirai col manubrio di una scure due colpi”. Il querelante giustificava la sua presenza in tal fondo a causa della necessità di cibarsi di qualcosa stante il “non mangiare da due giorni”. Il Lupis proseguiva: “…il Crucitti mi fece scendere da colà, e mi percosse a colpi di scure, causandomi le piccole ferite che mi osservate, e tanto sul pretesto che io gli avessi rubato delle cipolle impiantate nello stesso fondo”.

Il processo si concluse con una condanna nei confronti del Crucitti al pagamento dell’ammenda di lire 2.

Per quanto riguardava la normativa, dobbiamo evidenziare che all’epoca era vigente il Codice penale sabaudo promulgato dal re Carlo Alberto di Savoia nel 1839, testo che fu modificato e promulgato nel 1859 da Vittorio Emanuele II e che rimase in vigore, anche se con alcuni limiti territoriali, ad esempio in Toscana, anche nel neonato Regno d’Italia fino all’emanazione del codice penale italiano del 1889 (Codice Zanardelli).

Il reato di percosse era disciplinato dagli artt. 537 e ss, ricordando che lo stesso reato poteva essere punito colla relegazione fino ad anni cinque nel caso avessero portato al pericolo di vita ed impedito per trenta o più giorni all’offeso di valersi delle sue forze fisiche o mentali. Nel nostro caso però si rientrava nella disposizione dell’art. 550 il quale così disponeva: “Le percosse o ferite volontarie, fatte senza armi proprie, che non avranno cagionato malattia od incapacità di lavoro per un tempo maggiore di cinque giorni, saranno punite con pene di polizia. È però in facoltà del Giudice di raddoppiare gli arresti o l’ammenda a seconda delle circostanze. Non si potrà per tali reati procedere se non a seguito di querela della Parte offesa”.

In quel medesimo anno, in un altro fondo di proprietà dello stesso sig. Sarlo (sito nelle vicinanze del mulino denominato Scarpello II) avvenne un furto denunciato dal colono Crucitti Giorgio questa volta nei confronti di Domenico Sorace, imputato di furto di bergamotti commesso di notte. L’anno precedente (1865) il Domenico D’Amico veniva sorpreso, in quest’ultimo fondo, con una bisaccia addosso e visto da alcuni passanti per la via di Mosorrofa con dei frutti di bergamotto. La Pretura di Gallina, in quest’ultimo caso dichiarava il non luogo a procedimento penale stante il ritiro della querela da parte del sig. Crucitti.