I rapporti con il Santo Patrono
Il culto dei santi, nelle società agropastorali, nei suoi svariati aspetti è stato studiato solamente dal secolo passato inserendolo nel campo più vasto delle “tradizioni popolari”. Nella Calabria dei nostri padri e nonni il rapporto con il divino non è stato un semplice scambio di intenzioni o successione di richieste ma come sottolinea bene Ernesto De Martino ha rappresentato il: «riconoscimento di una realtà di valori che trascende gli egoismi individuali e alla quale l’uomo – se non vuol venire da bruto – deve sottomettersi, e di riconoscimento che il negativo può, sì, essere riassorbito dal piano metastorico mitico - rituale, ma non senza una condotta umana moralmente orientata». Semplificando i risultati della miriade di studi sui “rapporti con il cielo” si può affermare che l’esistenza stessa di questi rapporti determina comunque una forma di cultura che è sintomo di un umanità che prova a convivere nel mondo instaurando ed edificando delle fondamenta su cui fondare il suo essere nel mondo. Anche i nostri “antichi” hanno fondato il loro essere nel mondo attraverso la costruzione di sovrastrutture che possiamo definire culturali, soprattutto in campo religioso.
Si parla spesso di religiosità popolare cercando di sminuirla, ma non c’è dualismo tra religiosità colta e religiosità popolare, esse molto spesso convivevano senza distinzioni d’importanza o conflittualità. Afferma il professore Giovanni Sole: « la religiosità popolare non è banalizzazione o una riduzione della religiosità colta ed è tutt’altro che semplice». Uno degli esempi più bizzarri raccontato dallo stesso professore, sul rapporto con i santi e la madonna, nella nostra regione, è sicuramente il caso di Bocchigliero (CS): «In occasione della festa in onore della Madonna de Jesu, che si svolgeva due volte all’anno, la chiesetta della Riforma era affollata di gente che con devozione portava «mai», accendeva candele e lampade ad olio, cantava e salmodiava rosari, strisciava in ginocchio fino all’altare. In occasione di tormente di neve, alluvioni o siccità, la stessa Madonna veniva, però, immediatamente trasferita dal suo altare e «carcerata» nella chiesa madre affinché allontanasse i pericoli dalla comunità. Il termine carcerare sta ad indicare proprio l’intenzione degli abitanti: la Vergine era prigioniera e restava lontana dalla sua chiesa sino a quando non avesse esaudito ciò che il popolo pretendeva. Grandi feste e grande devozione per la Madonna, dunque, ma anche disappunto e vendetta nel caso che non si comportasse adeguatamente!».
Nel passato del nostro microcosmo mosorrofano esisteva un rapporto personale e familiare con il divino, specialmente con San Demetrio, anche se non abbiamo abbastanza fonti per ricostruirlo adeguatamente. Durante le interviste per la creazione del documentario sulla festa, realizzate nel 2016, Pietro Iero ci lasciò questa strofa: «San Dimitri fici lu chianu e lu fici m’abballamu e lu fici cu tuttu lu cori m’abballamu nui autri figghioli». La strofa appartiene ai ricordi della sua giovinezza, sembra classicheggiante nella forma, ma se andiamo a leggerla meglio possiamo ampliarne le poche ritmate parole; parafrasando, è come se volesse dire: “San Demetrio ha fatto la terra e l’ha fatta perché noi potessimo divertirci, l’ha fatta con tutto il suo cuore, soprattutto per noi bambini”. Dalle stesse interviste è risultato come alcuni anziani abbiano identificato persino un fiore “che piace” al santo: il garofano rosso, probabilmente legato al colore del martirio. Alcuni hanno parlato perfino di un animale dal quale il santo protegge. Secondo la ricostruzione della sua morte, Demetrio in carcere fu minacciato da un grosso scorpione “che insidiava il suo piede” ma che non riuscì a pungerlo. I nostri nonni tramandavano il potere che il santo avesse nel controllare questi esseri velenosi e così, se ne incontravano uno o se da questo erano punti, invocavo subito l’intercessione del martire. Tra le donne che si riunivano e recitavano giornalmente il rosario era stato stabilito anche un giorno in cui settimanalmente si pregava per San Demetrio. Il martedì di ogni settimana era infatti dedicato al santo di Tessalonica. Nel “Salve regina” alla mosorrofana si elencano in versi i sette giorni della settimana dedicandoli ad altrettanti santi e riti; al martedì si diceva: “martedì è di lu martiri vitturinu; fideli cristiani stati accorti; chi stu mundu è nu jocu di carti; mbiatu cu ndavi bona sorti”. L’augurio per una buona sorte si accostava al giorno del santo “vittorioso” come se le due cose potessero in qualche modo legarsi. La vita è un gioco di carte al quale bisogna non solo saper giocare per vincere, non basta la sola bravura ma serve anche una buona sorte che San Demetrio in qualche modo poteva orientare. Molti ritenevano che in passato nella notte, spesso si sentivano degli zoccoli calpestare le vie del paese, senza che nessuno vedesse nulla. A provocare quel suono era proprio San Demetrio che in rassegna passava le vie di Mosorrofa allontanando i pericoli e così la gente che li sentiva dal letto poteva dormire tranquilla. Alcuni ritenevano il cavaliere eternamente presente anche di giorno e che questi si manifestava quando ve ne era la necessità come nel caso della cera. Molti comportamenti e tradizioni, forse proprio perché li riteniamo comunitariamente, in fondo passati, non andiamo più a ricercarli o rinnovarli, e li abbiamo sacrificati sull’altare della contemporaneità.
Alcuni aspetti che in passato non erano affatto banali, legati soprattutto ai rapporti col patrono, probabilmente perché ritenuti poco importanti o tacciati di religiosità popolare, diventano superabili,è così che tradizioni anche secolari, perdono lo sforzo fatto per diventare tali, perdono gli anni del loro “traditio onis” e tutto diventa un eterno presente nel quale esse sono ormai passato da dimenticare. Dal culto per la “guida”, al “parare” la chiesa a festa, alle “rotede”, alla vestizione della statua, la cura per la reliquia, le leggende raccontate in questa occasioni, i riti e i “legami col cielo” nei quali si credeva e ai quali si ottemperava. La nostra festa sembra vada verso il suo inevitabile snaturarsi, forse per prendere una natura nuova. Il rapporto con il santo tende a diventare qualcosa di intimo e privato e stenta ad essere rapporto comunitario rispecchiando i rapporti contemporanei nella società odierna.