Il faber lignarius Franciscus Casablanca e altri falegnami mosorrofani del passato
Domenico Nucera, emigrato ormai da molti anni in provincia di Novara, oggi ferroviere in pensione ma che da giovane ha fatto apprendistato fra i trucioli di legno e l’odore pungente di colla della falegnameria di “mastro” Nino Russo in via Biancamano, mi sollecita, tramite messenger, a scrivere di questa occupazione un tempo abbastanza diffusa che, nel corso dei secoli, ha visto generazioni di mosorrofani cimentarsi con competenza e professionalità. Accetto la “sfida” pur consapevole di non essere esaustivo e di aprire, comunque, un piccolo ma significativo squarcio su questa nobile attività artigianale del passato.
La prima notizia di tale mestiere l’ho trovata in un vecchio atto notarile, risalente al 1620 dove in paese risulta attivo il faber lignarius Franciscus Casablanca. Con questo antico termine di origine latina, che significa letteralmente “artigiano del legno”, si indicava infatti il falegname.
In un altro documento, il personaggio in questione, viene definito magister, locuzione indicante un mestiere e che, nel nostro dialetto potremmo tradurre tranquillamente con masciu. Fino a circa un secolo fa avere quest’appellativo era motivo di orgoglio. Sappiamo anche che egli si era trasferito a Mosorrofa dalla Sicilia forse perché, rispetto alla vicina isola, vi era meno concorrenza.
Le sue vere origini o, perlomeno, quelle dei suoi antenati dovevano essere però sicuramente iberiche in quanto il cognome Casablanca, che non ha niente a vedere con la città marocchina, nasce da una combinazione linguistica che mescola l’italiano, con “casa”, e lo spagnolo, con “blanca”, generando il connubio ‘casa bianca’. In quel periodo tutto il sud Italia si trovava sotto la dominazione spagnola con una forte presenza di soldati che dopo congedatati spesso prendevano moglie e si dedicavano alle attività originarie.
Nella sua piccola bottega, oltre all’immancabile banco che non era solo un luogo di lavoro, ma anche un simbolo di orgoglio e maestria artigianale, vi erano alle pareti gli arnesi, semplici ma efficaci, attaccati ai chiodi. Strumenti e attrezzi, anch’essi fatti a mano, che coadiuvavano la sua l’abilità e l’ingegno nella realizzazione di strutture ed arredi. La popolazione del paese che in quel periodo oscillava tra i 250 e 300 abitanti, forniva il grosso delle richieste che gli venivano avanzate. Ma, data la sua bravura, non mancavano commesse che arrivavano dai casali vicini e dalla stessa S. Agata. Al suo servizio aveva anche un garzone di cui però ne disconosciamo il nome.
Si può dire che quasi tutta la modesta mobilia delle famiglie veniva realizzata in questa piccola bottega. Della sua operosità vi sono innumerevoli testimonianze nell’arredo di molte abitazioni che possiamo conoscere grazie agli inventari di numerosi documenti notarili del Seicento: casse di legno di noce, ma anche realizzate con i più modesti pioppi, pini e faggi; maille, “seggi” di legno e di buda, buffette, botti di castagno e di gelso, letti, cassette di acero, banchi, telai. Tutto ciò che insomma poteva servire per le modeste abitazioni dell’epoca. Per tagliare il legno con precisione e controllo utilizzava la sega a mano mentre col “chianozzo”, la pialla manuale, lo levigava e sagomava, garantendo una superficie liscia e uniforme. Con la gubbia scavava incavi e scanalature nel legno, consentendogli di creare dettagli decorativi e artigianali sui suoi pezzi. Tutto ciò lasciava stupefatti i passanti che osservavano mastro Francesco intento nel suo lavoro che a volte si protraeva fino a tarda sera, al lume di candela. Ovviamente si ricorreva a lui anche per la riparazione di svariati oggetti di uso quotidiano e utili alla vita rurale.
La materia prima, veniva rifornita dai tagliaboschi mosorrofani che con i buoi facevano poi trainare fino a valle il legname abbattuto anche se spesso, come risulta da antichi documenti, incappavano in reati di natura forestale scontando poi la pena nelle umide prigioni di Suso.
Per quanto riguarda i secoli successivi tra coloro che esercitavano lo stesso mestiere risulta il falegname Ferdinando Tortora, attivo nel 1890.
Altre notizie le ricaviamo dall’elenco di coloro che vennero danneggiati dal sisma del 1908 come Antonio Romeo fu fortunato, di anni 72 falegname, del qual apprendiamo che “ha risentito un danno di lire 500 circa, avendo perduto i ferri del mestiere, indumenti, mobilia, ecc.”; mentre Ferdinando D’Errigo fu Antonio di Anni 35, falegname “risentì danni per lire 600, per una casupola distrutta e pochi indumenti smarriti”.
Antonino Russo di Giuseppe e Caterina Verbaro di anni 39, negoziante di legname dichiara di aver ricevuto dal capitano dei Carabinieri Reali la somma di lire mille e cinquecento offerte a titolo di sussidio dall.Ill.mo Signor Prefetto allo scopo di riattivare il precedente negozio di legname che esercitava”.
Il 16 gennaio del 1921 il falegname Pasquale Crucitti per lavori di “riparazione ai cessi dei rioni baraccati di Mosorrofa” nonché alle “baracche nazionali” adibite ad uso scuola nella frazione predetta riceve lire 151,30. Nello stesso anno sempre per riparazioni alle scuole anche un certo Russo e Nicola Moio di Gaetano ricevono un compenso, quantificabile per quest’ultimo in lire 19,8.
Da ricordare anche il sig. Palmisano, attivo nel 1943 e masciu Peppino Romeo.
Nei decenni a seguire la maestria dei nostri artigiani non fu più sufficiente a contenere l’industrializzazione e alcuni furono costretti a chiudere bottega. L’introduzione di nuove macchine e tecnologie permise però alla generazione successiva di velocizzare la produzione di mobili e oggetti in legno che, fino a tempi abbastanza recenti, ha garantito un reddito dignitoso a diverse famiglie del paese. Oggi purtroppo a causa della grande distribuzione e della mancanza di “eredi” quasi tutte le attività hanno chiuso battenti.