Il problema della dote nella Mosorrofa del Seicento
Nella Mosorrofa del Seicento, come attestano alcuni documenti conservati presso l’Archivio storico di Reggio, il matrimonio è strettamente legato al patrimonio. Un “contratto” regolato sulla base di reciproche promesse, accettate e sottoscritte in presenza di un notaio, precedentemente al rito religioso. Il periodo intercorrente tra la stipulazione dell'atto e la celebrazione in chiesa del sacramento, generalmente non è eccessivamente lungo e gli oneri gravano soprattutto sulla famiglia della sposa. “Maritare” una figlia senza dote viene ritenuto disonorevole. Tanto che ancora sul finire dell’Ottocento, il medico condotto Demetrio Sorgonà, chiamato a testimone per una vicenda giudiziaria accaduta in paese dichiarava che in Mosorrofa “è più facile collocarsi in matrimonio una ragazza con dote, quantunque disonorata, anziché una ragazza onesta e senza dote…”. Ma torniamo al XVII secolo:
Il 5 marzo del 1602, vengono stipulati i “capitoli matrimoniali” tra Milibea Bruno, figlia di Lonardo e Prizia Nicolò e Francesco di Franco del casale di S. Anna di Seminara. Il promesso sposo pur essendo “forestiero”, appartiene allo stesso ambiente sociale e il processo di integrazione è favorito dal rispetto delle consuetudini e dalla famiglia locale. La dote della donna consiste in un giardino con gelsi ed altri alberi fruttiferi in contrada Scitarù che limita con Marcello Caridi, Bernardo Curi, Lici Zumi, Cola Cavalcanti ed altri confini. Nel documento viene poi menzionato un altro luogo con la stessa tipologia di piante situato in contrada S. Andrea di Mosorrofa che limita con i beni di Gian Andrea Andidero, gli eredi di Minico Provenzano e la strada pubblica. Nell’atto è anche specificato che le rendite dei due fondi sono sottoposti ogni anno al pagamento di 11 aquile e mezzo di incenso alla chiesa di S. Maria della Grazie della vicina città di S. Agata.
Tra gli immobili, oggetto della dote della donna, figura anche una modesta abitazione, come una casa terranea, posta nel casale di Mosorrofa con lo giardinello, ossia un piccolo podere coltivato ad orto quasi sempre disposto sul retro.
Il corredo di Milibea è composto invece da un matarazzo, un saccone (pagliericcio, ripieno di foglie di granturco), un paviglione di tila (copriletto) con lavori turchini, due paia di lenzuoli, due cuscini pieni, un giraletto arangino (arancione) di cucullo (il quale serviva sia per adornare, che per nascondere alla vista di chi entrava tutto ciò che vi era sotto il letto, mentre il cucullo era uno scarto di lavorazione della seta). L’elenco continua con una frazata bianca (lenzuolo di lana, coperta grossolana fatta di cenci), due tovagli di faccia di cui una con lavori di filo bianco, l’altra con lavori di seta rossi, una tovaglia di tavola, quattro stuiabucchi. Infine una caldarella, una padella e un tripode che valgono in tutto 21 aquile.
Di tutti i beni dotali l'apporto più immediato che la giovane coppia riceve al momento delle nozze è la biancheria a cui segue la consegna degli oggetti di casa e degli attrezzi domestici, ripetutamente indicati nell’ atto notarile e tutelati con precise clausole e costanti richiami alla tradizione.
Nello stesso anno, tra i beni portati in dote da Francischella Marrapodi, figlia di Carlo a Fabrizio Maniscalco, figurano “un pezzo di loco” sito a Misorifa alla pudagna (parte esterna di un ripiano agricolo) del giardino di famiglia limitante altri beni di essi dotanti, Tiberio d’Amico e la vinella che conduce alla Cappella di S. Pietro posta nel detto giardino (interessante il riferimento a questo edificio devozionale fatto erigere dagli antenati della futura sposa). L’elenco comprende anche un altro luogo alberato di gelsi e olivare a Placa che limita con Colantonio Birtè, Bernardo Floccari, gli eredi di Basilio Marmazza e il fiume sottostante, ossia il Pietrangelo e un battinderi, vale a dire una gualchiera per la follatura dei panni, azionata dall’acqua della fiumara.
Il corredo di Francischella, quasi simile a quello elencato per Milibea si differenzia per la presenza di qualche tovaglia di Cambrai, il cui nome deriva dalla città francese dove venne prodotta per la prima volta questo tipo di stoffa molto raffinata. Mentre tra gli “arredi” sono elencati una cassa grande e una “tavola da mangiare” entrambe di zappino, “uno mortaro di marmoro”, una botte di tre salme (circa 260 litri) e una giarretta (piccolo vaso di terracotta per contenere generalmente olive).
Nei corredi delle donne Mosorrofane prevalgono in genere capi disparati di biancheria e di abbigliamento necessari alla vita quotidiana, raramente abiti lussuosi, ori o gioielli, ma nel caso Francischella viene menzionato anche “un anello con l’imprunta d’oro” . Anche per Margherità Agricò, del fu Andrea abbiamo una eccezione. Nell’anno 1655, infatti, quest’ultima porta in dote due anelli d’oro con pietre rubine e una golena di perle et granatini ma anche due mannarini cioè un maiale e una frisinga (scrofa di primo parto) che si debbono governare insieme fino al tempo della macellazione. Le discrete condizioni economiche consentono quindi alla nuova famiglia di allevare e fare il maiale assicurandosi una provvista di carne per tutto l’anno.
Nel 1613 Silvia Sorgonà, figlia di Agostino porta in dote al marito diversi giardini alberati di gelsi posti nelle località Limma , Marcellina, Clisti, Traclari, la fiumara di Mosorrofa ed anche all’interno dello stesso abitato dai quali si ricavano diversi sacchi di fronda. Non mancano piante di ulivo, di cui due situate a Casciaro con alcuni granatari (melograni), limitante con Bastiano Mico e Colamaria Ranieri.
Questi beni fondiari, come abbiamo visto anche per altri capitoli matrimoniali, consistono in terreni coltivati soprattutto a gelso le cui foglie, servono per l’allevamento dei bachi da seta, prodotto da cui le famiglie ricavavano i maggiori introiti.
La dote di Silvia comprende anche una terra scapola aratoria consistente in otto quattronate (corrispondenti a circa 9.150 mq.), un canneto a Chilone, una vigna con Ficare ad Aretina, quest’ultima soggetta al pagamento del quarto al venerabile monastero di Trapezomata, e una casa terranea nel casale di Misorrifa limitante con Leon Pitea.
Meno fortunate, per quanto riguarda le abitazioni sono le future due coppie formate da Gilardina Filocamo e Cola Mammì (all’inizio del Seicento), e da Flavia Leri e Antonio Ghalapsi (1657) in quanto la prima riceve “un luogo di casa”, ovvero solo la superficie di una casa diroccata disponibile alla ricostruzione, mentre la seconda, una casa solarata “alquanto diruta e inabitabile che devono fabbricare e acconciare” sita nel casale di Mosorrofa, limitante con la casa di Agostino Bonono, Antonino Curduma e la via pubblica. Nel frattempo però possono alloggiare nella casa di Anna Pitea, zia di Flavia che limita con la casa di Orazio Sorgonà.
Nei documenti sin qui esaminati, la sposa viene sostituita in tutte le principali funzioni da coloro che la rappresentano. Invece lo sposo, già emancipato, raramente è accompagnato da un membro della famiglia i cui donativi, semplici integrazioni alla dote, sono di minor valore, tali da non richiedere il ricorso a particolari garanzie.
Per le donne che non possedevano nulla le cose si complicavano, ma alcune di esse, a volte, soprattutto le fanciulle “povere e oneste” per lo più orfane, riuscivano ad usufruire di alcune somme di denaro lasciate da alcuni benefattori per formare la dote e quindi “maritare”.
In un documento del 1772, ma la consuetudine era presente anche nel secolo precedente, il Rev. Sebastiano Cardea lega e lascia per l’anima sua e di suo zio don Domenico cinquanta ducati per maritaggio di due orfane del casale di Mosorrofa a condizione che siano “oneste” e ducati trenta per distribuirli ai veri poveri del casale.