Il tricorno nero: i preti mosorrofani nel '700
Il 9 luglio del 1726, all’età di 78 anni, muore il Rev. Francesco Casile, parroco della chiesa di S. Caterina del Trivio, situata nell’omonimo quartiere della città di Reggio, ma all’epoca poco più di un villaggio in aperta campagna circondato da gelsi e altri alberi fruttiferi, distante un miglio e mezzo fuori le mura cittadine, oltre il torrente Annunziata chiamato anche Lumbone.
Il sacerdote, che reggerà questa importante parrocchia per diversi anni, era nato a Mosorrofa dai genitori Nicola e Speranza Andidero, e l’edificio di culto dove celebrava le funzioni liturgiche sorgeva sul lato mare dell’antica via consolare Popilia, oggi via S. Caterina, la cui denominazione del Trivio o de Lu Triviu era legata ad un episodio della martire alessandrina. Il titolo scelto assumeva infatti le arti liberali del trivio, molto note nel medioevo e cioè, la retorica, la grammatica e la dialettica che Caterina seppe usare per controbattere e convertire un gruppo di filosofi e teologi pagani. E’ perciò quindi erroneo pensare, come fanno alcuni, che la chiesa si chiamasse così perché sorgeva vicino ad un punto d’incontro di tre strade.
Per poter far accedere agli ordini sacerdotali il proprio figlio, i genitori di don Francesco, gli avevano donato alcune proprietà di famiglia situate nelle campagne intorno a Mosorrofa che avrebbero permesso convenienti mezzi di vita. Quando un figlio esprimeva il desiderio di volersi fare prete, infatti bisognava fornirgli il cosiddetto “sacro patrimonio”, consistente in un complesso di beni costituiti in entità autonoma per provvedere coi redditi da esso derivanti al sostentamento dell'ordinato.
Il 10 agosto del 1725, proprio l’anno precedente al decesso, il sacerdote aveva stipulato il suo testamento presso un notaio reggino, chiedendo che il suo corpo venisse seppellito presso il sepolcro dei fratelli dell’Oratorio di Gesù e Maria della “Venerabile chiesa di S. Caterina” e nominava come erede universale un suo nipote, anche egli a sua volta sacerdote il quale portava lo stesso nome e cognome dello zio: il Rev. Francesco Casile “junior”, abitante a Mosorrofa e figlio di Demetrio e Grazia Cutrupi.
Poiché fino al 1741 nel Regno di Napoli le proprietà dei religiosi erano esentati dal pagamento delle tasse, il nipote, che aveva seguito la sua vocazione religiosa incoraggiato probabilmente dallo zio, poteva così ereditare senza preoccupazioni, una vigna in contrata Tracale, una casa solarata presso il casale di Misorrifa situata al Piano della Croce, un uliveto prima posseduto da Andrea Gattuso e Conforto Andidero col jus di due mecanni di olio “nell’anno che faranno frutto” alla Chiesa di S. Demetrio.
Tra gli altri lasciti, anche un terreno coni gelsi ed altri frutti presso la fiumara, compresa la nasida adiacente che limita con “la via della torretta” del Vallone, tre alberi di ulivo in località S. Andrea ed altri alberi fruttiferi ad Anzario. Non è difficile immaginare quindi questo prete, aggirarsi tra le sue proprietà, intento a trattenere con le mani, mentre soffia il vento di tramontana, il suo tricorno nero, il copricapo dalla forma cubica con tre alette usato soprattutto in quell’epoca.
Casile “senior”, non dimentica però il fratellastro per parte di madre, Giuseppe Brando al quale lascia una “casetta terranea”, sempre al Piano della Croce vicino quella del nipote.
All’epoca, il fatto che anche in campo religioso, un nipote seguisse le orme dello zio non era cosa inusuale. Sul finire dello stesso secolo abbiamo il caso del sacerdote Orazio Sorgonà che, come lo zio Filippo, più volte menzionato in altre occasioni, intraprenderà la stessa carriera ecclesiastica. Ed è probabile che anche il sac. Domenico Romeo sia stato il nipote di Giuseppe dal cognome omonimo. Quest’ultimo, nel 1767 nel suo testamento dichiara di lasciare in eredità ai suo fratelli dei terreni in località S. Giorgio, Anduci, Mellisia, e tre case situate nel paese di Mosorrofa, chiedendo di essere seppellito nella chiesa parrocchiale di S. Demetrio con la celebrazione, entro lo spazio di due mesi, di 10 ducati di messe. Dal testamento del sac Domenico Romeo, rogato nell’anno 1793, apprendiamo invece che nel giorno della sua morte vuole che per la sua anima si dispensino ai veri poveri del paese sei ducati di denaro contante e che nel corso degli anni si facciano celebrare in suo suffragio 100 messe basse, ovvero non cantate. Tra i beni che lascia agli eredi: una casa solarata con pergolato e terreno adiacente e una casa terranea allo Strapunti con orticello d’inverno. In quest’ultimo, nella migliore esposizione a mezzogiorno, si conservavano quelle piante che sarebbero perite altrove per soverchio freddo, cioè broccoli, cavoli, carciofi, ecc.
Tra gli altri beni del religioso abbiamo anche una nasida sita a Carbone con nove pedi di gelsi neri, un piede di cerasara, cinque piedi di fichi, altrettanti di ulivi che decide di vendere con obbligo di piantare vigne, gelsi, ficare e olivare perché si sta deteriorando.
Nel 1738 il clerico Giuseppe Crucitti del fu Domenico eredita dallo zio Demetrio due case solarate limitanti l’una con l’altra poste nel casale di Musorrofa, mentre nel 1730, Giuseppe Vazzani di Mosorrofa chiede di essere seppellito nella cripta riservata ai sacerdoti dentro la chiesa matrice di S. Agata.
Concludiamo con una notizia, tratta da un documento del 1714 in cui la madre del clerico Giuseppe Agricò, Antonia Bruno, dichiara che a breve il figlio ascenderà all’ordine del suddiaconato. Il primo gradino che lo porterà a diventare poi sacerdote.
Come dimostrato più volte, attraverso altri articoli pubblicati in questo giornale, il Settecento mosorrofano non conosce crisi vocazionali, e lo scopo di queste ulteriori testimonianze vogliono essere soltanto un tentativo di stappare dall’oblio almeno i nomi di alcuni personaggi che, nonostante siano nati in un piccolo casale collinare popolato da contadini, sono stati sicuramente dei punti di riferimento importanti per le comunità in cui hanno operato, non soltanto dal punto di vista spirituale.