Indagini su un nome sconosciuto inciso su un marmo

In fondo alla navata della chiesa parrocchiale, sulla parete sinistra, poco prima del presbiterio è collocato un piccolo altare del Carmine con marmi policromi intarsiati, con al centro una formella ovoidale raffigurante le Anime del Purgatorio fluttuanti tra le fiamme. L’opera, realizzata da maestranze siciliane, è miracolosamente sopravvissuta agli eventi sismici del 1783 e del 1908. I marmi, smontati e rimontati per ben tre volte all’interno di edifici di culto continuamente riedificati in paese, si presentano, nonostante tutto, in un buono stato di conservazione. Agli stessi canoni stilistici risponde l’altare maggiore dedicato a S. Demetrio col quale ha condiviso la stessa sorte, a differenza che quest’ultimo è molto più grande ed è fiancheggiato con teste di putti, mentre nella parte centrale vi è la formella marmorea entro la quale è raffigurato il santo titolare della chiesa.

Nel primo altare, grazie all’iscrizione in latino ancora visibile in alto e ai piedi del paliotto è possibile conosce la data di realizzazione e il committente che la finanziò: A.D. 1767. Expensis Cappellae Rectore et Paroco D. Sebastiano Cardea. Il ritrovamento di alcuni documenti, fanno un po’ di luce su quel nome che, per essere tramandato ai posteri, venne inciso sul freddo marmo.

Altra traccia dell’operato di quel sacerdote la ritroviamo alcuni anni dopo, precisamente il 16 ottobre del 1774 quando il suo nome riaffiora, non più sulla materia lapidea che oltrepassa l’effimero, ma in un documento cartaceo, redatto dal notaio Antonino Iero di Mosorrofa in cui decide, “per una giusta causa”, di acquistare al prezzo di 150 ducati un terreno messo in vendita dalla Confraternita laicale di S. Demetrio, posto nella contrada S. Giorgio, alberato con gelsi e rovori di capacità quattronate cinque di terreno. La transazione venne fatta col “patto redimenti”, cioè con la facoltà per la confraternita di rientrare in possesso dei beni venduti non appena fosse stato possibile. Ciò si era reso necessario perché la pia istituzione, avendo incominciato i lavori di ampliamento all’interno della chiesa parrocchiale, per potervi collocare l’altare maggiore, un manufatto prezioso da più mesi terminato, “non aveva denaro per le mani” per poter pagare il capomastro Filippo Foti e si era fortemente indebitata. Tanto più che “essendo imminente il festivo giorno del Glorioso martire, c’era il rischio di “vedersi perder gloria al Santo”.  Il completamento dei lavori entro quella data importante per tutti i mosorrofani, avrebbe dato prestigio sia al parroco che alla confraternita.

Alcuni mesi prima, precisamente Il 15 marzo del 1774, sempre “per fare cassa”, e per lo stesso motivo il  priore e rettore del Sodalizio, Sebastiano Romeo, col consenso della maggior parte dei confrati,  aveva venduto per 35 ducati a Giuseppe Bova una casa solarata sita e posta nel casale di Misorrifa limitante con la casa di Antonino Mallone, Santo Morabito, Alessandro Nicolò e la vedova di Demetrio Nicolò. La scelta di alienare l’immobile era dettata anche dal fatto che i soldi della pigione annuale si dovevano in parte spendere per i ripari necessari “affinché si potesse in piedi sostenere”.

I documenti smentiscono quindi, una volta per tutte, le ipotesi avanzate da qualche studioso il quale sosteneva che i marmi degli altari presenti all’interno della Chiesa parrocchiale provenissero dalla distrutta città di S. Agata.

Per saperne di più su Sebastiano Cardea, il religioso di origini santagatine, che aveva aperto i cordoni della sua borsa, ci vengono per fortuna ancora in soccorso altri documenti archivistici dai quali si apprende che era figlio di Francesco e Vittoria D’Alessandro. Lo zio materno Domenico aveva esercitato il suo ministero sacerdotale a Mosorrofa per moltissimo tempo, morendo il 7 dicembre del 1763 all’età di 83 anni per poi essere seppellito presso la chiesa di S. Nicola, nella vicina S. Agata. Prima di prenderne il suo posto nella medesima parrocchia il nipote Sebastiano lo aveva più volte affiancato e sostituito ma si era anche occupato di amministrare alcune proprietà fondiarie trasferendo la residenza in paese e dimorando in una casa “consistente in più membri” . La sua presenza è infatti attestata a Mosorrofa sin dal 1743 quando durante il contagio della peste, essendo agente e procuratore di Domenico Candela di Reggio, a causa del cordone sanitario lamentava di non poter inviargli le derrate che i coloni avevano raccolto nei suoi fondi posseduti in paese e conservati in una torre. Nel gergo locale dell’epoca questo termine stava ad indicare, non solo i fabbricati sviluppati in altezza per scopi difensivi o di avvistamento ma, anche tutti quei complessi edilizi rurali che nel passato erano adibiti a residenza o ad attività agricola.

Il sacerdote aveva come “servitore” tal Demetrio Iero di Antonio, al quale per disposizione testamentaria lascerà, una caldaia delle mezane che tiene in casa, un materasso pieno di lana, una coperta verde, due coperte di lana, due paia di lenzuola nuove, un pezzetto di stabile in contrada Aretina, una scoppetta con ferri di rame, sette piedi di castagnara in contrada S. Giorgio, otto canne di tela bianca e 12 ducati, e tutti li suoi vestimenti bianchi e di colore come pure alcuni frumenti. Gli si debbano corrispondere poi due cafisi di olio, tumula due di germano ed un tumulo di grano. Prima di Iero aveva avuto ai suoi servizi Giuseppe Votianoti.

Sempre dalle sue ultime volontà, dettate al notaio Lazzarino di S. Agata, apprendiamo che don Cardea aveva lasciato per Dio e l’anima sua e di suo zio Domenico ducati cinquanta per maritaggio di due orfani di Mosorrofa, dopo aver accertata la moralità e l'illibatezza e ducati trenta da distribuire ai poveri del casale.

Il “maritaggio” era un istituto che aveva lo scopo di fornire i mezzi finanziari alle donne bisognose che dovevano sposarsi e non disponevano di una dote propria. Molto spesso venivano istituiti per disposizioni testamentaria da parte di chi moriva senza eredi e voleva acquistarsi particolari benemerenze. Questa antica tradizione mirava ad un duplice scopo: oltre che sostenere le ragazze povere e orfane preveniva anche il fenomeno delle ragazze madri o delle prostitute.

Tra gli altri beni patrimoniali, il reverendo Cardea possedeva anche un giardino in contrada S. Giorgio, un altro stabile in contrada Pittari, una vigna ad Aretina e una casa in più appaltamenti a Cataforio ricevuti a titolo di patrimonio dal fu suo zio Domenico D’Alessandro. Il legame affettivo e la riconoscenza verso il defunto avo sono attestati ancora una volta dal fatto che avesse ordinato che in suo suffragio si facessero celebrare per dieci anni continuativi delle messe cantate e piane ed un notturno dell’officio dei morti all’interno della Chiesa Madre col suono di campane in cui dovevano concorrere tutti i sacerdoti della Comunia di S. Agata con i ministri ed assistenti, pagando altresì alla sagrestia la cera per ogni messa cantata. Le stesse disposizioni che aveva dato anche per sé medesimo dopo la sua morte. Non soddisfatto di ciò, aveva ancora disposto di far celebrare 1300 “messe basse”, di cui cinquecento per l’anima di suo zio ed altri cinquecento per l’anima di esso testatore, cento per l’anima della magnifica Domenica De Alessandro, cento per la magnifica Eleonora D’Alessandro ed altrettante per quella di suo padre Francesco e della madre Vittoria.

I buoni rapporti di amicizia col marchese Domenico Sarlo della città di Reggio, ma dimorante a Mosorrofa, si deducono dal fatto che il religioso lo avesse nominato come suo esecutore testamentario e che in caso di vendita dello stabile di contrada Casciaro i suoi eredi lo avrebbero dovuto cedere ad esso e non già ad altri.

Dopo aver raccomandato la sua anima “all’Onnipotente Iddio Trino ed uno, alla Beatissima Vergine Maria, al suo Angelo Custode, a tutta la Corte Celeste, e specialmente al Santo del suo nome”, in una fredda domenica d’inverno, il 29 dicembre del 1776, il sacerdote Sebastiano Cardea, lasciò questo mondo terreno. La bara, contenente il suo cadavere venne trasportata da otto uomini ricompensati con 24 carlini, dal villaggio di Mosorrofa fino alla collina di Suso e il suo corpo seppellito, come quello dello zio, nella chiesa Arcipretale in sepultura sacerdotum.