La fine di un rito antico: "la festa del maiale"

Quanti suini sono stati macellati  in questa stagione invernale a Mosorrofa? Probabilmente pochi, anzi pochissimi. Forse una ventina. Una tradizione in via d’estinzione che da qualche anno haormai  iniziato la sua parabola discendente.  Una vera deblache per il paese, conosciuto in tutta la provincia reggina come la “capitale” delle frittole, i rinomati “pezzi” di carne e cotiche messi a cuocere per diverse ore nel loro grasso nella cosiddetta “caddara” posata sul focolaio e attorniata dalla brace ardente. L’ultimo atto di un “rito sacrificale”, ormai destinato a diventare solo un ricordo. Una giornata di festa dove amici e parenti si riunivano in una grande tavolata.

Fino ad un decennio fa non c’era famiglia che non allevasse almeno un maiale. In alcuni casi anche tre! Per secoli” il porco” è stato la dispensa dei mosorrofani. La sua macellazione, rigorosamente fatta in casa sino a pochissimo tempo fa, era un rito antico al quale partecipava tutta la famiglia. Una festa, forse cruenta, che ha segnato e scandito la vita di un’intera comunità. Quasi tutti avevano la “zimba” dove ricoverare ed allevare il maiale con le ghiande o gli avanzi di cibo pasturati con la “caniglia”, la crusca. Una volta al giorno, generalmente nel primo pomeriggio, era una processione interminabile di donne con in testa l’ondeggiante secchio del “mbivirune” da svuotare nello “scifo”, la vasca rettangolare  dal nome di origine greca, a volte fatta in pietra ove il porco si avventava voracissimo, con gran soddisfazione dei proprietari che lo vedevano ingrassare giorno dopo giorno e già pregustavano le già menzionate “frittole”, “ i curcuci”, le salsicce, le  soppressate, i capicolli e tutto il ben di Dio che, dall’animale, si ricavava.

Quando esso superava il  peso del quintale, generalmente fra dicembre e febbraio, ci si preparava all’uccisione della bestia, anche perché, il freddo dell’inverno era l’ideale per la conservazione della carne e la stagionatura dei salumi. Prima della data stabilita, si cominciava a stagnare la “caddhara”, grazie alla maestria di abili artigiani presenti a Mosorrofa sin dall’Ottocento, appartenenti alla famiglia Campolo i quali , nel periodo della macellazione, facevano buoni affari e che per diverse generazioni hanno ereditato il soprannome del loro mestiere: i caddarari.  

Altre operazioni erano poi quelle di “mmolare” i coltelli e preparare la “maidha” (madia). La mattina dell’uccisione, le donne si svegliavano che era ancora buio per preparare un enorme pentolone di acqua bollente che sarebbe servita successivamente per radere le setole del porco. Alle prime luci dell’alba, gli uomini prelevavano il maiale, preceduto da qualcuno con un secchio di ghiande rumoreggianti allo scopo di farsi seguire docilmente dalla bestia, affamata ma riottosa (a bella posta non gli si dava da mangiare nelle ore precedenti l’uccisione per favorire lo svuotamento delle budella), la quale, probabilmente intuiva la sorte che gli sarebbe toccata da lì a poco.

“Il carnefice”, munito di un coltello lungo ed affilato (“u scannaturi”), tranciava di netto la giugulare del porco che si dimenava lanciando grugniti altissimi e spaventosi rimbombanti in tutto il paese. Fra i bambini eccitati c’era anche chi, più sensibile, si nascondeva, tappandosi le orecchie per non udire quegli strepiti disperati. Il sangue, che zampillava copioso dalla gola del porco, colando in una pentola era rigirato continuamente con un mestolo di legno per evitare che coagulasse. Esso, infatti, sarebbe stato poi l’ingrediente principale del sanguinaccio, una dolcissima crema, oggi vietata, di cui i bimbi di un tempo erano ghiottissimi. Dopo una lenta agonia il povero animale esalava l’ultimo respiro ed allora ci si preparava a raschiare la cotenna.

Quando anche questa operazione veniva terminata, il “macellaio” incideva la pelle delle zampe posteriori facendone fuoriuscire i tendini nei quali veniva infilato un attrezzo di legno a forma di triangolo senza base sicché, con l’aiuto di una carrucola, o più semplicemente a forza di braccia, l’animale, per essere squartato, veniva issato ed appeso ad un gancio che spuntava dal soffitto. A questo punto aveva inizio un’operazione complessa e delicata nella quale emergeva tutta la perizia del “macellaio”, il quale passava, delicatamente, ad aprire il ventre dal quale cavava la vescica, subito affidata ad uno degli aiutanti perché, dopo averla svuotata, la lavasse accuratamente e, con l’aiuto di una cannuccia, la gonfiasse. La vescica, nei giorni successivi, era riempita con lo strutto ancora caldo e liquido che, dopo qualche giorno, solidificava. Dunque, con molta attenzione, onde evitare di forare le budella, toglieva tutto l’apparato digerente, il colon e l’ intestino tenue.

Tutto finiva in una bacinella e per le donne cominciava un lavoro lungo, fastidioso e delicato per lavare decine e decine di metri di intestini che, rivoltati, erano collocati in una grande pentola piena di acqua fredda assieme a limoni ed arance. Era la volta di polmoni, fegato e cuore e la carcassa, svuotata completamente delle interiora e tagliata in due parti, le “menzine”, nel senso della lunghezza, veniva sganciata. Ora, finalmente, gli uomini potevano riposare, mentre per le donne aveva inizio un vero e proprio “tour de force.”  Per prima cosa affettavano un pezzo di fegato e lo avvolgevano nel peritoneo   che, con qualche pezzo di carne tagliato dal collo della bestia, finiva sulla griglia per servire da colazione agli uomini che avevano lavorato così duramente e che ora non disdegnavano un po’ di arrosto ed un paio di bicchieri di vino. Dopo la frolla della carne, il giorno successivo si provvedeva al sezionamento, operazione affatto semplice che richiedeva perizia ed esperienza, ed allo sminuzzamento delle parti. Nella prima metà del secolo scorso, almeno dalle nostre parti, non erano ancora diffuse le macchinette trita carne per cui la polpa di salsicce e soppressate era tagliuzzata a mano fino a ridurla a dadini. Si trattava, ovviamente, di un lavoro massacrante che impegnava le donne per un paio di giorni. Una volta preparata la pasta col sale e le spezie, iniziava la lunga e fastidiosa operazione dell’insaccaggio dal quale si materializzavano copiose provviste di salumi consumati soprattutto per le grandi occasioni.

Qui sotto, una foto risalente agli anni Settanta della famiglia Pellicanò impegnata nella macellazione del maiale nei pressi delle Scuole Elementari.