L'arrivo del Citrus bergamia e la mutazione del paesaggio nell'agro mosorrofano

Se il primo bergamotteto di cui si ha notizia venne impiantato a Reggio Calabria, presso la Rada dei Giunchi, nel 1750, per quanto riguarda Mosorrofa abbiamo un atto rogato il 10 novembre del 1776 dal notaio Lazzarino della città di S. Agata in cui il possidente reggino Antonio Maria Laboccetta concede ad Ignazio Labate “di poter piantare in un suo giardino abbeveraticcio sito in contrada Misorrofa sotto li manganelli, che limita col fiume pubblico e don Onofrio Melacrino, il numero di quattrocento piedi di arboscelli di agrumi, cioè trecento piedi di bergamotti, e piedi cento di limoni, e fare altresì intorno per quanto si estende la pianta suddetta, una siepe di citrarata”.

Prima di allora nel nostro territorio, i documenti relativi ai contratti agrari pur numerosi, non menzionano la presenza di agrumeti. La scelta da parte dei proprietari di impiantare questo nuovo tipo di colture, affidandone i terreni a terzi, diventerà molto più redditizia rispetto agli onnipresenti gelseti che piano piano lasceranno il posto principalmente ai bergamotti, modificando, soprattutto in prossimità delle fiumare, quasi completamente il paesaggio agrario.

Al termine della stipula del contratto sopra indicato, la piantagione doveva essere apprezzata e, a sua volta, il detentore del terreno si obbligava passati anni otto a pagare ad esso colono Labate, il terzo del “beneficio” in danaro “rispetto ai sudetti arboscelli”.

Riguardo alla citrarata, ovvero gli alberi di cedro che, come i bergamotti e i limoni, avevano trovato un microclima ideale e condizioni favorevoli per crescere e le cui piante delicatissime erano bisognosa di continue cure, al conduttore sarebbe toccata invece la quarta porzione. Il proprietario si sarebbe anche impegnato in un’operazione di bonifica, che consisteva nel rimuovere pietre e massi dal terreno per destinarlo a questo nuovo uso, facendo “a sue proprie spese tutto e quanto bisogna per spetrarsi detto giardino”. L’affittuario “da diligente colono e padre di famiglia” si sarebbe adoperato “darli la dovuta coltura” obbligandosi anche ad irrigare gli alberi (bergamotti, cedri e limoni) quante volte necessario e nei tempi soliti. Condizioni essenziali per la crescita degli agrumi era infatti un buon sistema di approvvigionamento idrico fornito in questo caso dalla fiumara Carbone dalla quale i conduttori si servivano a turno durante i giorni della settimana.

In un'altra clausola viene specificato che il Labate aveva anche diritto di piantare 100 piedi di ficarelle e nell’atto dell’apprezzo lucrarne la quarta porzione del beneficio.

La messa a dimora degli agrumi, così come leggiamo nel documento, doveva essere effettuata mantenendo “la dovuta distanza non meno di palmi 18 per caduno” (circa 4 metri), e che fossero arangiarelle di Spagna. Su questi alberi, infatti, soltanto successivamente, potevano essere poi innestati i bergamotti.

Significativa, a tal proposito, una legenda in cui si racconta che un moro di Spagna vendette un ramo di bergamotto ai signori Valentino di Reggio i quali lo innestarono su un arancio amaro di un loro possedimento.

In quell’epoca, l’olio essenziale di bergamotto, si ricavava tramite spremitura a mano. I frutti venivano tagliati in due. La polpa era tolta e la scorza lavorata attraverso delle spugne con un particolare recipiente di terracotta chiamato “concolina” del quale, per fortuna ne conservo ancora un esemplare.

Solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, anche gli “spiritari” stagionali mosorrofani, come quelli alle dipendenze del marchese Sarlo, incominceranno ad utilizzare una innovativa macchina per l’estrazione dell’essenza, collocata in un apposito ambiente all’interno del mulino di sua proprietà e i cui ruderi sono ancora presenti tra la confluenza dei torrenti Mella e Carbone.

In un altro atto, sempre della metà del Settecento (la data purtroppo non è leggibile, ma sappiamo che il notaio Antonino Iero che l’aveva redatto operò sino al 1783), Domenico Marsilio della città di S. Agata cede e dona in affitto, un terreno presso la contrada Carcia che tiene in beneficio dal sig. Pasquale Mazzone a Giuseppe Bova di Misorrifa per coltivare alberi di bergamotti a sua spese, e, trascorsi sei anni (quindi quando le piante incominceranno a dare i primi frutti), si dovessero estimare e quest’ultimo percepirne la terza porzione.

Per il terraggio, ovvero la cessione del terreno a coltura per il quale bisognava corrispondere un canone fisso in natura doveva beneficiarne, per la quarta porzione Marsilio che a sua volta ne avrebbe pagato l’affitto a Mazzone occupandosi anche dell’ insertura, mentre per l’uso dell’acqua, per adacquare detti alberi, il colono, doveva attenersi, a quanto convenuto precedentemente tra i due.

Grazie ad un carteggio datato 1761 relativo ad una disputa che si trascinava da anni tra Ettore Melacrino e Pasquale Mazzone (entrambi appartenenti alla nobiltà santagatina) apprendiamo che nella tenuta di Carcia nascevano molte vene d’acqua ed era attraversata da un alveo, in cui si intromettevano le acque del vallone Catusi e Limma “toccanti l’orli di detto podere dell’una e l’altra parte” e delle medesime, Mazzone, pretendeva “farne l’uso li piaceva in ogni tempo”.

La presenza, fino a qualche decennio fa, nella medesima località, all’interno di una vecchia casa colonica, di alcuni strumenti utilizzati per l’estrazione dell’essenza, conferma la vocazione della zona a questo tipo di coltura, praticata fino a tempi abbastanza recenti.

Prima di concludere, azzardo un’ipotesi abbastanza plausibile: solo in alcuni documenti settecenteschi e non in quelli precedenti (quindi solamente quando incomincia ad essere introdotta e conosciuta questa nuova pianta), nel territorio mosorrofano si riscontra il toponimo Bergamo. Non è escluso che, così come era successo per esempio alle località Ciurasaredha e Pirara, chiamate cosi rispettivamente per la presenza di alberi di ciliegio e di pero, esso sia attinente alla presenza del bergamotto. Ritengo infatti che il nome del luogo, nonostante l’assonanza, abbia poco a che fare con la città lombarda!