Le monache "bizzoche": un aspetto sconosciuto nella Mosorrofa del '700
Il 3 novembre del 1799, una suora detta le sue ultime volontà ad un notaio. Si tratta di Anna Maria Surace del fu Paolo del casale di Musorrofa territorio della Città di S. Agata.
La religiosa, da anni abitante a Reggio dichiara che trovandosi costretta da un male cronico d’asma e avanzata in età, “per cui facilmente, e senza accordo di tempo le potrà sopraggiungere la morte”, volendo provvedere per la sua anima, ha stabilito che pochi ducati assieme ad una “coltra colore giallo di capicciola”, ovvero una coperta da letto pesante di un tessuto grosso di canapa, si consegnino a Giuseppa Surace, sua nipote e moglie di Candeloro Galimi. Alle altre nipoti, per parte del fratello Salvatore, nomati Domenico, Giuseppa e Anna del casale di Musorrofa lascia in eredità: un matarazzo di lana paesana, tre paia di lenzuola di tela, un’altra cultra verde, un copertone bianco, sei camice, due giubbetti (corpetti) di tuppi, due falde di capicciola, di cui una di colore acquamarina e l’altra granatina, tre casse, una lettèra, vale a dire una Intelaiatura del letto, per lo più di legno, su cui si sistemava il saccone, o materasso. Altri tre ducati vuole invece che vadano in beneficio a Rosa Colosi moglie di Carmine Campolo la quale la ha accudita amorevolmente e desidera così ricompensarla per i tanti incomodi recati alla stessa per i servizi ricevuti.
Il documento non specifica a quale ordine religioso apparteneva la suora, né tantomeno perché da anni si trovasse in città. Il fatto che venisse assistita all’interno di un’abitazione privata e non in un monastero ci fa pensare che si trattasse di una “monaca bizzoca”. Questo termine non ci deve far pensare ad un insulto, poichè le bizzoche, erano laiche consacrate in una sorta di monachesimo domestico e godevano in mezzo al popolo di prestigio e venerazione. Vivevano in una semi clausura facendo molte penitenze, preghiere, atti devozionali e, chi sapeva leggere, letture spirituali.
Tale esperienza religiosa, si radicò particolarmente a Mosorrofa soprattutto nel Settecento, sopravvivendo fino agli inizi del secolo successivo. Il paese infatti, in proporzione alla sua popolazione, contava un sorprendente numero di donne che vestivano un abito monacale dal colore grigio-terra (bigio), accessorio che appunto guadagnò loro il nome di bizzoche, le quali accomunate da una grande levatura umana e spirituale, divennero veri punti di riferimento per gli abitanti dei rioni in cui abitavano. Il popolo le chiamava “monache di casa” e ricorreva spesso a loro per consigli, conforto e carità, anche se non mancava chi vedeva in esse solo delle “zitelle” dalla femminilità appassita.
A queste donne, paragonabili per certi versi alle beghine fiamminghe, le madri affidavano volentieri le figlie per apprender l'arte di ricamare e prepararsi un buon corredo, e anche perchè avevano una missione importante, quella cioè di testimoniare alle proprie “ragazze” l'attaccamento alle funzioni sacre, la recita delle preghiere quotidiane, le particolari devozioni mensili e settimanali.
Queste “pie donne” vivevano in locali separati oppure in famiglia, come ad esempio suor Serafina Casile, figlia di Pasquale e Marianna Cagliostro, la quale, come attestato da un documento del 1769, risulta, assieme alla madre ed ai fratelli, proprietaria di una casa solarata, una casetta, un forno ed un orto limitante col notaio Antonino Iero, Antonino Suraci, il rev. Giuseppe Romeo e il “Piano della Chiesa”.
La religiosa morirà il 14 maggio del 1806. Sul registro dei defunti il Parroco dell’epoca Filippo Sorgonà, la definisce Soror bizocca exemplaris, per il suo fervore religioso e le virtù caritatevoli.
Il 29 gennaio del 1792, a 53 anni, presso l’abitazione solarata di sua sorella Domenica, situata allo Strapunti, muore invece, suor Catarina Nucara. Era figlia di Paolo e Francesca Russitano, mentre, Francesca Iero, figlia di Antonio e Anna Casile, finisce i suoi giorni nella propria casa di Mulè, il 6 febbraio 1812 all’età 79 di anni.
Rosa Iero, monaca bizzoca dell’ordine di S. Francesco, figlia di Francesco e Domenica Russitano rimane vittima delle macerie del terremoto del 5 febbraio del 1783, all’età di 63 anni.
In quell’evento calamitoso, la sorte sarà più generosa con Benedetta D’amico, figlia di Domenico e Domenica Palmisano, conversa del monastero benedettino di Santa Maria della Vittoria di Reggio. Probabilmente si trattava di una suora laica che si dedicava ai servizi quotidiani e ai lavori manuali. Dopo il sisma, che rase al suolo il monastero che la ospitava, ritornerà nel suo paese dove morirà dieci anni dopo, esattamente il 19 agosto del 1793, svolgendo di fatto, con ogni probabilità il ruolo di bizzoca al servizio del suo villaggio.
Sempre a causa di quel terremoto, che distruggerà pure il Conservatorio delle Educande di Reggio, si trasferirà a Mosorrofa anche la suora bizzoca Rosa Caminiti di Gallico, che sarà ospitata presso l’abitazione di Caterina D’Amico, ma solo per morirvi l’anno successivo.
Un'altra bizocca, accomunata dallo stesso cognome delle menzionate Francesca e Rosa, risulta Anna Iero la quale aveva con esse dei probabili legami di parentela.
Mai come in questo caso la locuzione latina “nomen omen”, cioè nel nome il destino, si può dire che calzi perfettamente a pennello per queste tre suore, visto che il termine hierós deriva dal greco col significato di “sacro”!
Nel 1794 è anche menzionata una suor Filicia Soraci del fu Antonino del casale di Mosorrofa. Mentre apprendiamo che il 15 ottobre del 1798 all’età di 55 anni, la bizzoca Clara Vervaro figlia di Gennaro e Lucrezia Nucara fa da madrina a Francesca Maria Albanese. Dal registro dei defunti, risulta anche, che il 25 maggio1814 a 78 anni lascia la sua vita terrena soror Francesca Monorchio, figlia di Andrea e Antonia Pitea.
Chiudiamo infine questo lungo elenco con Serafinà Nicolò di Antonino vissuta nella prima metà dell’Ottocento,
La maggior parte di queste nostre antenate, guidate spiritualmente secondo un cammino personalizzato, si inserivano a distanza, come terziarie, in uno degli ordini mendicanti, soprattutto francescani. I superiori avevano il compito di accertare la vocazione e la rettitudine di vita per poter poi chiedere alla Curia Arcivescovile il consenso alla vestizione.
Essere bizzoche, a volte, diventava una necessità, in quanto vi erano spesso donne così povere da non avere una dote per sposarsi o per entrare in convento, visto che in quel periodo anche per diventare suora “regolare”, era richiesta la dote. Dunque farsi “monaca di casa”, in una società che voleva le donne sotto il controllo di un marito o confinate in un monastero ,poteva essere una scelta che consentiva una certa libertà e uno stato sociale accettabile.