Le periferie...
Negli ultimi decenni, ogni candidato Sindaco del Comune di Reggio Calabria ha proclamato solennemente di voler ripartire dalle periferie. Basta osservare la vita quotidiana dei nostri centri per constatare purtroppo quanto distanti dalla realtà siano tali affermazioni. Il vocabolario Treccani cosi definisce la periferia:
periferìa s. f. [dal lat. tardo peripherīa «circonferenza», gr. περιϕέρεια, der. di περιϕέρω «portare intorno, girare»]. – 1. non com. Contorno, bordo, orlo circolare: i raggi dai vari punti della p. di una ruota vanno tutti a riunirsi nel di lei centro (Leopardi). 2. estens. a. La parte estrema e più marginale, contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio: la p. di un continente, di una regione, di un’isola, di una catena montuosa; disporre i tavoli, le sedie, alla p. del salone; la p. del circo, di un’arena, di un anfiteatro. b. In partic., e di uso più com., l’insieme dei quartieri di una città più lontani dal centro; con sign. più ristretto, un quartiere periferico: la p. operaia; la p. residenziale; è una p. mal collegata con il centro.
In particolare lo stesso vocabolario sottolinea la frequente locuzione agg. di periferia, che oltre a indicare la collocazione nel tessuto urbano, aggiunge spesso una connotazione riduttiva, di squallore e desolazione: una stazioncina di p.; le solite case di p.; un cinema di periferia. Accezioni e usi più precisi ha l’agg. periferico). d. Per metonimia, spec. nel linguaggio sociale, politico, sindacale, il complesso degli abitanti che vivono in zone periferiche, soprattutto in quanto iscritti a un partito, a una corrente: i voti, gli umori della p.; o anche, in usi fig., l’insieme delle strutture e delle istituzioni locali nella compagine di uno stato, oppure degli organi provinciali, in contrapposizione al vertice, di un partito, di un sindacato.
La nostra è una periferia collinare ai piedi dell’Aspromonte; Mosorrofa, Meso chora in greco calabro, forse significa, paese di mezzo, probabilmente quindi ,sta ad indicare, secondo una delle ipotesi più verosimili, il sito in mezzo a due vallate dove insistono due fiumare : il torrente Pietrangelo confluisce infatti nella fiumara del Calopinace mentre il torrente Mandarano è un affluente della fiumara del Sant’Agata che prende il nome dall’omonima e antica Regia Città, Comune autonomo fino al 1927, quando, il regime fascista, decise di accorparla nella “Grande Reggio.”
Di quella gloriosa città, Mosorrofa, fin dai tempi dei Bizantini era uno dei Casali e Sant’Agata la sede capoluogo. Forse non ne siamo tutti pienamente consapevoli, ma abbiamo una storia secolare da rivalutare e far conoscere al grande pubblico. Un tentativo in tale direzione viene portato avanti, meritoriamente, dalle varie associazioni presenti sul territorio e da alcuni studiosi locali tra i quali i nostri redattori di Eco Orlando Sorgonà, Fabrizio Casoria, Paolo Cotrupi ma anche dal prof. Pasquale Nucara. Inoltre la Pro loco San Salvatore si spende da anni per valorizzare l’area archeologica dell’antico sito di Motta Sant’Agata . Tra le pubblicazion locali si segnalano: la Storia di Mosorrofa di don Demetrio Cutrupi, I miei Ottanta anni di vita del can. Caridi, il Vocabolario e frasario Mosorrofano - Santagatino del prof. Pasquale Crucitti, L’antica Sant’Agata di Reggio e la chiesa di San Nicola di Valeria Varà.
Fino al 1861 di popolazione ellenofona, il territorio santagatino, registra oggi una popolazione in progressiva diminuzione, dovuta al calo demografico, ma anche, da un decennio a questa parte, alla ripresa della “grande fuga” delle nuove generazioni verso le regioni del Nord , in cerca di opportunità di lavoro e di migliori condizioni di vita. Le amministrazioni pubbliche succedutesi dal secondo dopoguerra hanno consentito un abusivismo edilizio che, insieme ai frequenti incendi estivi, ha contribuito al dissesto idrogeologico di un territorio di incomparabile bellezza, un tempo ricco di coltivazioni pregiate quali il gelso, il grano, l’ulivo, il bergamotto o il castagno. Si produceva anche la seta. Gli antichi mulini, che una volta segnavano le giornate di fatica dei contadini al servizio dello “gnuri” di turno, se ristrutturati e valorizzati potrebbero costituire opportunità di sviluppo; le fiumare, con i terreni coltivati lungo di esse le “hiumarine” di un tempo, sono diventate oggi discariche a cielo aperto. Le strade, versano in condizioni talmente disastrose, quasi da far rimpiangere la “carrozzabile” che da San Sperato portava a Mosorrofa nei primi anni del Novecento. Le attività culturali, ricreative e sportive, pure fiorenti negli anni Settanta-Ottanta risentono, oltre che del rifugio nei social, del calo demografico, della mancanza di luoghi di aggregazione , di strutture sportive e di opportunità di lavoro e di sviluppo. Stiamo diventando dei “non luoghi” , oppure i nostri paesi hanno ancora la possibilità di rinascere ? Bene fanno le associazioni e il nostro Comitato di quartiere a organizzare convegni ed incontri sulle periferie, a protestare e non arrendersi a una politica miope . La “Restanza” titolo dell’ultimo libro dell’antropologo Vito Teti è un termine che ormai fa parte del lessico della Calabria ed ha un valore. Restare per cambiare. Perchè restare non significa stare fermi, ma significa partecipare. Perché la partecipazione attiva è l’unico modo per dire la nostra. Ma occorre che ognuno di noi prenda coscienza delle proprie responsabilità. Non possiamo delegare ad altri il presente e il futuro di una terra, la Calabria, che diede il nome all’Italia, il nostro Stato nazionale. Uno Stato, che, anche per la miopia della nostra classe dirigente meridionale , sta delegando al “Partito Unico del Nord,” di legiferare su un progetto di un’ autonomia differenziata senza regole chiare, che rischia accrescere il divario tra due parti del Paese ed esasperare ulteriormente gli animi di una popolazione meridionale che chiede servizi adeguati e infrastrutture degne di città e paesi dell’Europa del terzo Millennio.