Longino, il calabrese che eseguì la condanna di Cristo
Nel Vangelo di Giovanni si legge: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» e nella versione di Matteo: «Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore». Il nome che la tradizione ha assegnato a questa discussa guardia romana lo traiamo dai vangeli apocrifi. Nicodemo così ne parla: «Il soldato Longino trafisse il suo costato con una lancia». Nel vangelo di Pietro si legge: «Lo avete ancora trapassato con una lancia». Nel 1340 Papa Innocenzo VI lo dichiarò santo e le sue reliquie ebbero da subito un incredibile diffusione, particolar modo la sua lancia, oggetto di leggende pari a quelle del santo Graal. Il museo di Vienna conserva oggi la Heilige Lanze una punta di lancia che Re e Imperatori hanno venerato come appartenente a Longino e che pare persino Hitler desiderasse così tanto. Una statua colossale del centurione, realizzata dal Bernini, si trova in una delle quattro nicchie ai piedi della cupola di Michelangelo presso la basilica di San Pietro. Un personaggio attorno al quale aleggiano ancora oggi leggende e racconti. Lavorando per estensione è il soldato che afferma nel vangelo di Matteo: «Davvero costui era Figlio di Dio!».
Longino era davvero calabrese? La legione romana stanziata in Palestina in quel tempo era con probabilità la decima fretensis voluta da Ottaviano durante la guerra civile contro Pompeo. Viene chiamata decima con riferimento alla celebre legione di Cesare. L’appellativo fretensis è una derivazione di fretum ( frattura) nome col quale si identificava lo stretto ( fretum siculo). Inizialmente pare fosse formata da soli legionari del luogo, reggini e Bruzii o Brettii. Secondo un ipotesi suggestiva ma ancora oggi non suffragata da sufficienti prove, questa legione era agli ordini di Pilato in Palestina e furono proprio i soldati calabresi quelli che eseguirono la condanna a morte di Gesù.
Le voci che seguono la processione delle varette, non sembra conservino buoni ricordi di questi nostri probabili lontani antenati, tanto che in riferimento a Longino ripetono: “Nci minau na lanciata, quello cane traditore, e lu cori nci passau, pi nui autri piccaturi”. Parole di difficile decifrazione; quel “cane traditore”, insulto spregevole per decretare anche la distanza col genere umano è il Longino del quale si è parlato. “L’etichetta” è in palese contrasto con tutta una serie di significati tendenti nel corso dei secoli ad addolcire la sua figura fino a renderla fonte di ispirazione. Nell’ultimo verso le parole cambiano tono e rielaborano il concetto. Tutti diventano Longino che ha trafitto, anzi egli stesso lo ha fatto “per noi peccatori”.
Alla X legio fretensis quel giorno è toccato solamente eseguire un ordine come accadeva anche gli altri giorni. Stavano recitando sul palco della storia ma non potevano saperlo, fossero essi calabresi o di altra provenienza. Di Longino sembra che i nostri antenati non avessero un immagine positiva, nonostante sia diventato per estensione il primo tra i pagani a riconoscere la divinità di Cristo dopo la morte. Si faceva forse fatica ad accettare un gesto così crudo che tuttavia rientrava tra le pratiche comuni per accertare o velocizzare il decesso di un condannato. Il canto è schietto, riprende quei momenti drammatici che non conoscono ancora il loro divenire. Longino il santo, qualunque sia la sua nazionalità e cittadinanza è una delle figure più affascinanti ed emblematiche che i riti di Pasqua ogni anno ricordano.