"L'ultima profezia" Tolstoj e il suo messaggio
“I grandi uomini sono simili alle meteore, splendono e si consumano per rischiarare la Terra”.
Parto proprio da questa semplice ma al tempo stesso sublime citazione che ho scelto di utilizzare da incipit per questo mio intervento e che in qualche misura mi sembra calzante per introdurre l’argomento che mi accingo a trattare.
Ho scritto, forse erroneamente, la parola “argomento”; avrei dovuto dire del personaggio di cui sto per trattare, che a mio avviso rappresenta un vero unicum nella storia in generale ed in quella del pensiero in particolare: Lev Tolstoj.
Non c'è alcun dubbio che, chiunque si sia avvicinato alla sua figura, che siano stati i contemporanei ma soprattutto coloro i quali hanno studiato successivamente la sua opera, non furono in alcun modo capaci di sottrarsi alla forza attrattiva di quella personalità gigantesca e dall'aria profetica, che stando ai resoconti dei giornalisti e persone che l'hanno conosciuto, il grande vecchio sprigionava, con la sua lunga barba da sciamano persiano, i suoi occhi grigi dallo sguardo magnetico ed attento a capire ogni sfaccettatura della personalità di chi si accostava lui per avere un'opinione, un consiglio, un chiarimento, fatto questo che, stando sempre ai resoconti del tempo, preoccupava non poco le autorità politiche ed ecclesiastiche del suo paese.
Ma egli non se ne curava, malgrado quella sua personalità che in prima battuta impietriva il visitatore, forse vista la fama che lo precedeva, tuttavia Tolstoj, vedendo quella moltitudine variegata arrivata da ogni dove per vederlo, si fermava con tutti sorridendo, non disdegnando nessuno di uno sguardo, un saluto, una parola gentile. In fondo credo sia stata proprio questa la grande forza di questo gigante del pensiero, cioè di riuscire a colloquiare con la stessa identica semplicità sia con il contadino, che con l’aristocratico signore (quale in realtà era anche lui), non lasciando indietro nessuno, ma cercando di capire tutti e quando fosse stato possibile, aiutare tutti.
Ma in definitiva, per quanto egli si sforzasse di essere umile tra gli umili, vivere come loro e forse anche parlare per loro, la sua fierezza intellettuale non poté mai essere soppiantata dall’angusta anima del mugiko.
Anche per questo motivo credo risulti ancora oggi difficile, seppur a distanza di più un secolo dalla sua morte, arrivare a dare una definizione più completa della personalità e dell’opera Tolstoiana, anche se un lettore attento delle sue opere, soprattutto quelle del periodo letterario, della giovinezza per intenderci, potrebbe facilmente riuscire ad intravederne i tratti autobiografici. L’elemento autobiografico infatti attraversa trasversalmente tutte le sue opere, possiamo pertanto benissimo riscontrarlo nel piccolo tenente Olenin nei “Cosacchi”, che cerca scampo dalla malinconia e dall’ozio nella sua professione di soldato, immagine fedele del giovane ufficiale d’artiglieria Tolstoj, oppure nel penoso Pierre Bezuchov in “Guerra e Pace” o ancora nel gentiluomo di campagna in cerca di Dio e dell’esistenza in “Anna Karenina” ed ancora nella sua lotta per la santità in “Padre Sergio”.
Si coglie a mio avviso qui più che altrove, la grandezza di questo artista del pensiero, questo abile forgiatore di anime che grazie al suo occhio attento, ha saputo cogliere meglio di chiunque altro le mille sfaccettature dell’animo umano, grazie anche alle sue capacità di autocritica, per rigenerasi sempre e continuamente.
Soltanto questa critica verso sé stesso, prima che verso gli altri, eleva pertanto l’intera sua opera verso vette più alte, come mai nessun prosatore ha saputo fare.
Così come l’ombra segue il corpo, così Tolstoj con i suoi personaggi insegue perpetuamente sé stesso, in un continuo divenire di idee, analisi, sentimenti nascosti, sempre uguale e sempre diverso, in forma di ritratto cinematografico fluente ed in continua evoluzione, anziché in un'unica ed immobile fotografia di sé stesso.
In considerazione di ciò, ritengo si possa affermare che in definitiva in tutte le opere di Tolstoj, in particolare in quelle della maturità, si possano riscontrare i segni della lotta secolare in cui il proprietario terriero è costretto a vivere con l’anarchico spirituale, come quando vedendo un campo incolto vorrebbe rimproverare i contadini per la loro trascuratezza, ma poi di fronte alle parole di una povera donna ed ai suoi bambini non si trattiene nel fare l’elemosina.
Ed è in questo preciso momento, che a mio avviso, l’uomo antico si scontra con il “nuovo” in una battaglia che non vedrà né vincitori né vinti. Si può leggere in questo episodio della sua vita il grande messaggio che Tolstoj, riavvicinatosi nella vecchiaia alla parola del Vangelo e alla ricerca di Dio, ci ha lasciato. Guardare al prossimo come un uomo e non come un oggetto, concentrandosi prima di tutto su chi siamo e non su cosa possediamo o potremmo possedere.
E sono forse questi concetti su cui si dibatteva continuamente, che di fatto hanno generato quella profonda frattura tra sé e la sua famiglia, che forse poco lo capiva e che lo spinse, in un estremo tentativo di obbedienza alla sua coscienza all’abbandonarla.
Tolstoj fugge infine da loro, un mattino, mentre la casa è ancora immersa nel sonno, per non farvi più ritorno; sale su un treno, per scappare, sì ma in definitiva dove?
Forse non solo dalla sua famiglia, ma addirittura da quel mondo che sente non appartenergli più, come un asceta del pensiero, sveste pertanto i panni del conte per vestire il ruvido saio del francescano e prendere in mano il borsone del Pellegrino.
Scappa Tolstoj, ma da chi? In definitiva forse da tutti e da nessuno, forse neanche da sé stesso, fino a quando stremato dallo sforzo della stanchezza e dalla febbre che lo divora, arriva in una piccola stazione ferroviaria, Astàpovo, letteralmente “l’ultima stazione”, parafrasando il titolo del romanzo di Jay Parini, è sdraiato in delirio nel letto del capostazione che lo accoglie in casa.
Dopo qualche giorno il grande maestro muore, ma non prima di aver rivolto un ultimo pensiero ai contadini, quella gente semplice così lontano dalla sua condizione di nobile, ma da lui tanto amata: “Ma i contadini, come muoiono i contadini” sussurra, sono le sue ultime parole.
Fuori dalle finestre semi aperte una ressa di curiosi fa capolino per intravedere il grand'uomo “l'ultimo profeta del ventesimo secolo”, il grande maestro.
Tolstoj è morto! Il telegrafo continua a battere senza sosta la notizia che velocemente corre per ogni dove.
In poco tempo la piccola stazione di quel piccolo paese sconosciuto diventa il centro del mondo, una continua processione di persone che vogliono vederlo per rendergli l'ultimo omaggio.
Ed in questa “ordinata confusione” stanno gomito a gomito il contadino ed il nobile, il prete e il suo servo, il mugiko ed il proprietario, tutti diversi ma in definitiva tutti uguali di fronte alla morte che in fondo accomuna tutti ed appiana ogni differenza, così anche per Tolstoj nato nobile e morto come un qualsiasi uomo, sia esso conte, contadino, pastore o re.
Mi piace infine credere, che l'animo di Tolstoj assunto in cielo, sieda accanto ai grandi maestri del passato da Socrate a Platone ad Aristotele a Machiavelli e ai filosofi francesi, a discutere con loro sui grandi temi della vita ultraterrena, così come aveva magari sperato di fare in quella terrena.
Riposa nella nuda terra, vicino alla sua tenuta di Jasnaja Poljana, non un nome, non una data, ma solo la nuda terra che ricopre “l’ultimo dei profeti”!