Nero mosorrofano

Il lato oscuro del comportamento umano in un villaggio collinare durante il corso dell’Ottocento.

 

21 giugno del 1857

Nella notte tra il 20 e 21 giugno, proprio durante l’evento astronomico che segnava l’inizio della stagione estiva, un uomo, Francesco Casile si tratteneva in campagna, precisamente in contrada Carbone, nei pressi del grande masso nero famoso per le sue leggende. Sopraggiunto il buio aveva trovato alloggio in una casetta ancora in costruzione e sfornita di porta. Mentre era immerso nel sonno, col favore dell’oscurità, si introdussero i fratelli Antonino e Giuseppe Nicolò. Nonostante fossero stati riconosciuti dalla voce, col rovescio di una scure, che uno dei due stringeva tra le mani, venne colpito violentemente sul volto e alle gambe. Rientrati in paese, come testimoniato da Angela Cutrupi e Stefano Pellicano i fratelli ripetevano con spavalderia  alcune frasi, riportate anche nei verbali del processo: “ è vero che non l’ammazzammo, ma denti e muso non ce ndi lasciammo”;  “gli rumpimmo u musso e nci scutolammo i denti”.

Sembra che la causa dei maltrattamenti sia stata una questione sorta a causa del “gioco delli brigli”, un antico e diffuso passatempo popolare simile ai birilli, la cui posta era costituita da una manciata di monete, avvenuta nelle ore pomeridiane la notte precedente del fatto criminoso, in quanto il Casile avrebbe scagliato una pietra in testa ad Antonio. La sete di vendetta di quest’ultimo gli costerà però qualche mese di prigione.

25 marzo 1833

Giuseppe e Francesco Campolo si avvidero che nel fondo di Nicola Comi, di cui erano coloni, cinque buoi guidati da Giuseppe Sorgonà, si nutrivano di certa erba chiamata lisa. Questa pianta dalle foglie lunghe, sottili e dure, serviva infatti, all’occorrenza come sobrio mangime. Poiché quegli animali avevano arrecato dei danni alla proprietà, cercarono di catturarli per tradurli “alla giustizia”.

Incominciò allora ad animarsi una rissa, alla quale nel frattempo si era associato anche un tale Domenico Romeo. Il proprietario dei bovini nonostante fosse armato di fucile, venne trascinato a forza davanti al giudice circondariale di Gallina.

Quell’autorità fece perquisire lo zaino che aveva dietro le spalle, rinvenendovi, tra gli altri oggetti un coltello cosiddetto, scorciacrape ed una “patente” dalla quale il Sorgonà risultava essere Guardia Urbana.

Proprio in virtù di ciò egli sosteneva di poter possedere quell’arma. Le guardie urbana erano, soprattutto nei piccoli centri, l’asse portante del regime borbonico ed il serio punto di riferimento nell’opera di repressione della criminalità comune. Non si trattava di milizie di professionisti ma quando erano in servizio, portavano la baionetta e la coccarda rossa al cappello. In linea di difesa Sorgonà affermava di essere “un uomo dabbene”, e che i “campagnoli” erano soliti asportare coltelli simili. Ma secondo la legge l’arma rientrava nella classe di quelle vietate.

Nonostante l’imputato fosse difeso da Giuseppe Melacrino venne condannato a mesi sette di prigionia, ad un’ammenda di carlini 20 ed alla confisca dell’arma.

Estate 1838

Come nel caso precedente, Il minore Francesco Cutrupi, portando al pascolo alcuni bovi, fece introdurre questi in un sentiero di un fondo in contrada Sala, coltivato da Demetrio Sartiano. Sebbene gli animali di sopra enunciati non avessero danneggiato le piantagioni ivi esistenti, cibandosi solamente delle erbe che spontaneamente erano nate in quel luogo, Demetrio Sartiano, accorgendosi di tutto e mal soffrendo che i buoi utilizzassero quei pascoli a lui appartenenti, incominciò ad inveire contro il ragazzo. Fino a quando dalle parole non passo ai fatti, percuotendolo con colpi e pugni. Il padre del Cutrupi per nome Natale espose denuncia poiché il figlio aveva riportato delle ecchimosi sulla regione del colon. L’imputato venne condannato alla pena di giorni 15 di mandato in casa.

Prima metà dell’Ottocento

La mattina del giorno otto del mese di gennaio trovandosi Orazio Sorgonà di Domenico nella sua bottega sita in Mosorrofa addetta alla vendita di alimentari sfusi come pasta, zucchero, sale, olio, mentre si trovava nell’atto di mangiare un pezzetto di pane con un poco di carne, questi gli venne sottratto dalle mani da Sebastiano Caracciolo di Cataforio, il quale aveva pensato di fargli uno scherzo. Più volte il Sorgonà ne aveva chiesto la restituzione ma il Caracciolo continuava a farsene burla. Perduta la pazienza ed alzatosi dalla sedia incominciò quindi a menarlo con dei pugni, uno dei quali lo colpì nell’occhio destro causandogli una contusione giudicata dai periti abbastanza pericolosa. Considerato che “dell’espressato fatto la rissa seguì in principio per mero scherzo”,  il commerciante  venne condannata a soli 15 giorni di detenzione.

30 luglio 1841

Avendo sospettato che Agata Nicolò e Angela Sorgonà avessero raccolto delle pere da alcuni alberi situati nel suo fondo, Natale Verbaro si conferì presso la fiumara e trovando la seconda delle due, incomincio a percuoterla con le mani e con lancio di pietre, causandogli delle contusioni in ambo le scapole ed una escoriazione sul gomito destro. Volendo dare una lezione anche alla complice, la sera dello stesso giorno si recò nella casa della Sorgonà e veduta costei avanti la “ruga” della stessa, col dorso di un’accetta, la colpì più volte causandogli dei lividi alla parte inferiore della scapola sinistra. Venne condannato a due mesi di esilio generico.

Maggio 1844

In un giorno del mese di maggio, Domenica Sorace assieme ad Angela Pellicanò e Margherita Megale, da Mosorrofa si dirigevano verso la contrada Lutrà. Cammin facendo si imbatterono in Demetrio D’amico, il quale le precedeva pochi passi lontano. L’uomo, essendo storpio e camminando in modo claudicante incominciò ad essere deriso dalle donne suddette le quali lo prendevano in giro con le seguenti parole: “Questo è zoppo. Eppure il re lo volle per soldato, dippiù quanto prima sposerà una ragazza”. Il fatto che l’imperfezione fisica non lo avesse escluso dalla leva del Real Esercito Delle due Sicilie, e che presto sarebbe anche convolato a nozze non andava forse giù alle tre fanciulle.  

D’amico finse al momento indifferenza, non reagendo alle provocazioni, ma nel giorno 22 del suddetto mese imbattutosi con le stesse nella medesima contrada, incominciò ad ingiuriarle dicendo: “puttane posate li sacchi che avete in testa” e quindi, mentre le altre se la davano a gambe riuscì ad assalire la Sorace, percuotendola a colpi di legno e causandole delle lievi offese, per le quali sarà denunciato, chiedendone al giudice la punizione. Dagli atti del processo si dedusse che il D’amico aveva anche estratto dal suo sacco un coltello, senza però farne uso. Per il reato commesso l’uomo sarà condannato ad un mese di esilio correzionale.

N.d.r.

Quanto descritto nell’articolo, frutto di una meticolosa ricerca presso gli archivi, testimonia una realtà che non va ignorata. Nello stesso tempo occorre precisare che  la gran parte degli abitanti delle nostre contrade,   essendo in una condizione di estrema povertà , viveva del duro lavoro quotidiano  nei campi, aveva il senso della famiglia e della comunità e possedeva grandi  valori umani e religiosi.