Pecore, capre e pastori a Mosorrofa nei secoli passati

Un ordinato gregge di pecore e caprette attraversa il centro del paese. A governare la carovana, un giovane pastore. Nonostante l’andamento sostenuto ed incalzante che egli ha imposto a tutto il gregge, la colonna si sposta con ritmi antichi, lenti, che si misurano sui tempi dell’uomo e non su quello delle macchine, facendo così sbuffare qualche automobilista rimasto bloccato.

Un fedele cane pastore lancia talvolta qualche abbaiata, più per dovere che per minaccia, completando la scena insolita tra gli occhi incuriositi di quelle sparute persone che ancora amano uscire di casa la domenica mattina e che, complice la giornata decisamente soleggiata, popolano la piazza di Mosorrofa. Qualcuno immortala la scena, per certi versi surreale, con il suo smartphone, mentre il tintinnio dei campanacci e i belati fanno sì che la curiosità schiuda le imposte di qualche finestra.

Essendo tra gli spettatori involontari, l’inusuale quadro bucolico al quale assisto mi porta a riflettere su quella che un tempo era la tradizione agro pastorale della nostra comunità, ormai rimasta solo nella memoria di pochi anziani, dimenticando che in passato è stata una delle componenti produttive della nostra economia.

Leggendo i documenti notarili, apprendiamo infatti che già nel lontano 1628, Silvio Condello, del casale di Mosorrofa, custodiva una mandria di pecore, mentre nel 1694 Domenico Mammì donava al proprio figlio Salvatore, procreato con Agata Crucitti, oltre “uno scecco mascolo di pelo negro” anche 15 animali pecorini e caprini.

Nel 1703 Giuseppe Vazzana del casale di Misorrofa affittava per due anni al “conduttore” Demetrio Latella, alias Malluni, 35 capi di bestiame ovino che non presentavano morbi e difetti, ricevendo anche dei campanacci. Il pastore, in cambio, prometteva di consegnare in ogni mese di agosto diverse pizzotte di formaggio al proprietario e, nel 1732 Angela Morabito, moglie di Vincenzo Caridi a causa di molti debiti contratti cedeva invece il suo gregge a Domenico Antonio Tripepi

A partire dal 14 settembre del 1718, Il dottor Antonino Melacrino concedeva, invece, e sempre per due anni, a Francesco Fortugno di Mosorrofa alias Armacia una sua mandra di pecore e capre in numero di ottantaquattro. Tutti gli animali elencati godevano di buona salute, tranne una pecora in avanzato stato di età. Il prezzo pattuito veniva stabilito in 10 ducati, 9 carlini e 2 grana. Fortugno si obbligava anche a dare del germano di buona qualità nell’atto della consegna. Trascorsi diversi anni, sarà il figlio di costui, Paolo che ereditando anche il soprannome e il mestiere del padre, poterà avanti la tradizione di famiglia. Egli infatti risulta il possessore di una mandra composta da circa 260 animali, tutti segnati con lo stesso merco. Che i Fortugno tramandassero questo mestiere per diverse generazioni lo attestano anche alcuni documenti di fine Settecento in cui riscontriamo i nomi di un altro Giuseppe e del figlio Demetrio.

Il “signo” o “merco fatto alle orecchie degli animali, mediante tagli, ne assicurava l’appartenenza, allo scopo di renderli meglio riconoscibili, e quindi più rivendicabili in caso di furto. In alcuni casi venivano anche marchiati con un ferro rovente imprimendo su una parte del corpo la lettera iniziale del cognome del proprietario.

Riferimenti a queste pratiche sono anche presenti nei documenti che seguono dove, il 14 settembre del 1789, Domenico Federico di S. Agata, “come vero signore e padrone”, consegnava per tre anni a Bartolomeo Nicolo figlio di Giuseppe di Mosorrofa 50 animali pecorini e caprini. Quest’ultimo si obbligava anche di non mercare i figliaccioni partoriti ogni anno se prima non fosse stato messo al corrente il proprietario e in un atto notarile del 1818 il massaro Demetrio Sorgonà vendeva con patto di ricompra a Giuseppe Maria Melacrino 39 animali col “merco furcella e carace” al prezzo di 44 ducati.

Nel 1787 Nicola Pitasi e Sebastiano Trunfio ricevevano da Domenico Sarlo 102 animali caprini e pecorini per due anni, obbligandosi a dare un capretto a San Martino, 4 para di latticini e mezza pecora a Pasqua, delle gallette di ricotta allattata, due ricottelle fresche ogni 15 giorni e tre rotola di cascio “promentino”. L’anno successivo, ma stavolta per lo spazio di tre anni, il Sarlo consegnava a Giuseppe Tripodi di Fossato “da più anni abitante con domo, et familia” nel casale di di Mosorrofa, 110 animali con le stesse condizioni.  Sempre il menzionato Pitasi nel 1780 aveva dato a Francesco Nicolò fu Bartolo 128 caprini e pecorini per anni due, mentre vent’anni prima acquistava dal barone De Blasio diversi montoni viventi alla ragione di carlini 11 per ognuno. Lo stesso personaggio si rivelerà a anche un ottimo “stimatore” contattato spesso per valutare il prezzo delle bestie da acquistare.

In alcuni casi i proprietari delle grosse mandre erano dei religiosi benestanti, come ad esempio il reverendo Filippo Sorgonà, il quale nel 1793 affidava i suoi 368 animali ovini e caprini a Giuseppe e Bruno Fortunio di Cardeto, ma il più delle volte, come già visto sopra, si trattava di soggetti appartenenti all’aristocrazia santagatina, i quali affidavano i loro armenti ai numerosi pastori, in cambio di prodotti caseari o di denaro.

Nel gregge di quasi tutti i pecurari figuravano agnelli promentine e postorine, montoni, zimbari (il cui nome rimanda al greco chìmaros, caprone giovane), ciavorelli, lastre e capre d’allevo che, in un periodo in cui la presenza del lupo era abbastanza diffusa subivano spesso degli assalti.

In tutti gli accordi stipulati, veniva specificato che sortendo qualche malattia, intemperie o altre cause accidentali per cui dovessero venire a perire detti animali o parte di essi i pastori non erano tenuti a risponderne mentre i proprietari avevano diritto a consumarne la carne e la pelle. E’ importante evidenziare che con quella di capra si facevano gli utri (gli otri, con cui si usava  trasportare, sin dall’antichità, i liquidi: olio, vino, miele) nonché le ciarameddhe, le zampogne della tradizione musicale, ancora viva nella Vallata del S. Agata.

Dagli animali, quindi, non si ottenevano solo prodotti caseari. Attraverso documenti settecenteschi apprendiamo anche che nel paese di Mosorrofa da un cantaro di lana si potevano ricavare circa 10 ducati e che i chiancheri, ossia i macellai potevano vendere, soprattutto nel periodo pasquale la carne minuta facendo buoni affari.

Per pascolare gli armenti nella giurisdizione della città di S. Agata, i pastori dovevano pagare una tassa chiamata fida che veniva esatta dal baglivo. Poiché, soprattutto le capre erano particolarmente dannose alle piantagioni ed ai pascoli, in caso di danni arrecati alle proprietà private, il gregge poteva essere “carcerato” rinchiudendolo in un recinto sorvegliato e liberarlo, previo pagamento della multa da parte dei proprietari.

La necessità di provvedere a ricoveri anche temporanei e precari per l'uomo e per le greggi, obbedendo a esigenze quali la difesa, il riparo, il riposo ma soprattutto la disponibilità di spazi per i lavori che si eseguivano con gli animali riuniti (mungitura, caseificazione, marchiatura, tosatura), induceva i pastori a realizzare piccole 'architetture' rustiche chiamati “zacchini e “pagghiara”. Un vero peccato che di queste ultime costruzioni, ancora presenti nei sovrastanti campi fino agli inizi degli anni Ottanta non ve ne sia più traccia.

Per ricoverare gli animali nel periodo invernale venivano utilizzate anche delle grotte che offrivano un riparo naturale. Nel 1778, infatti, in località Marcellina, nel casale di Mosorrofa risultava una “rocca atta ed idonea al ricovero di bestiame nell’inverno” come pure nelle contrade Cucco e Mandarano. In quest’ultima località, nel 1795 il dittereo Fallanca concedeva per quattro anni le rocche e terre che teneva, con patto espresso che il “magnifico” Francesco Romeo del casale di Mosorrofa non potesse subaffittarle, ma fosse lecito ad esso dittereo, di potervi immettere la sua mandra previo pagamento di carlini 10 ogni volta che le avrebbe utilizzate a tal scopo. Forse non è quindi una casualità che il toponimo Mandarano, derivi dal greco e significhi mandriano!