Pietro, Alfonsina e l'incompiuta di Piazza Croce

Agli albori del Settecento, tal Giovanni Cama concede ai Padri del venerabile convento di S. Francesco di Assisi della città di Reggio un pezzo di terreno, situato nel villaggio di Mosorrofa, nel luogo detto La Croce per edificare una chiesa sotto il titolo di S. Antonio di Padova. Questa zona, come apprendiamo da documenti dello stesso periodo, era considerata “l’entrata del casale”, e denominata così da tempo immemorabile, per la presenza di una croce situata in uno slargo nei cui pressi sorgevano modeste abitazioni come quella di Natale Saccà, oppure come l’altra di Domenico Borruto, quest’ultima utilizzata come “casa di nutricato” per l’allevamento dei bachi da seta.  Al piano della Croce è anche documentata l’abitazione del sacerdote Domenico Romeo. Non manca un “trappeto per fare olio” con annesso deposito di grandi giare in terracotta e “un piede di gelso nero grande alla ruga” il cui proprietario risulta il capitano del battaglione a piedi della città di S. Agata Silvio Cama, sicuramente stretto parente del concessionario del terreno. Case terranee e solarate, a volte affiancate da forni a cupola per cuocere il pane, sono documentate nel rione durante il secolo in questione ma anche in quello precedete. Infatti nel 1617 risulta che Angilella La Cava, madre di Tiberio e Lucisano Nicolò abitava nel convicinio della Croce.

Non appena iniziano i lavori di costruzione del nuovo luogo di culto, che doveva essere di dimensioni modeste, alcuni abitanti, testimoniando una profonda e radicata devozione nei confronti del popolare santo con la tonsura ed il giglio, non si lasciano sfuggire l’occasione per dare il proprio sostegno, come nel caso di Demetrio Crucitti, il quale l’8 settembre del 1703 “per il particolare amore e devozione per l’erigenda chiesa sotto il titolo S. Antonio de Padua” decide di donare quattro carichi di fronda in località Mellisia. La foglia degli alberi di gelso, come ribadito più volte in altre occasioni, era indispensabile per la nutrizione dei bachi e quindi molto ricercata dagli allevatori che la pagavano a buon prezzo. Lasciti testamentari a favore dell’erigenda chiesa ci saranno sicuramente stati da parte di altri Mosorrofani.

Tra i più convinti sostenitori materiali dell’opera, vanno sicuramente ricordati i coniugi Pietro Vazzani ed Alfonsina Cicciuni  i quali, due anni prima, precisamente il 26 ottobre del 1701 (forse la data non è casuale, in quanto in quel giorno si festeggiava il martire di Tessalonica), accolgono nella loro casa di Strapunti, il notaio Domenico Cosentino e Giovanni Ferrante, guardiano del convento, dichiarando di voler donare tutti i loro beni alla comunità francescana, purchè venga garantito alla coppia il vitto quotidiano, l’alloggio, i vestimenti, gli aiuti medici durante la loro infermità “et ogni altra cosa necessaria che l’occorrerà durante la  loro vita”. L’importanza di questa donazione, che sarà determinante per la prosecuzione dei lavori, e per la consistenza patrimoniale, viene evidenziata dal fatto che alla stesura dell’atto sono presenti ben sei testimoni provenienti dalla vicina S. Agata e dalla città di Reggio, tra cui un altro notaio, un giudice regio ed un sacerdote.

Poiché la chiesa in atto “sta principiata a fabbricarsi nelli beni di detto venerabile convento”, Pietro ed Alfonsina, vogliono che dopo la morte i loro cadaveri si “avessero da seppellire nella chiesa del glorioso S. Antonio de Padua“  in detto casale di Mosorrofa in una sepoltura che possa accogliere solamente i corpi di essi coniugi e non di altri” con l’iscrizione marmorea sulla lapide. Come risaputo in quel periodo le inumazioni avvenivano all’interno delle chiese utilizzando soltanto “fosse comuni”. Solo alcune famiglie benestanti in cambio di cospicue donazioni ottenevano il permesso di sepolture private. E’ il caso, ad esempio, della famiglia Marrapodi che all’epoca era l’unica a disporre lo jus sepelliendi, cioè il diritto di costruire, sotto un altare, un sepolcro gentilizio riservato, dentro la chiesa parrocchiale di S. Demetrio, situata poco più avanti rispetto a quella in costruzione.

Nella stessa chiesa di S. Antonio, che accoglierà le loro spoglie, la coppia, desidera che si celebri la messa nelle feste e nelle domeniche, sempre ed in perpetuo, con l’elemosina “che s’avesse da pigliare” sopra i beni che donano di spontanea loro volontà “e non per forza”, per titolo di donazione irrevocabile.

Il convento di S. Francesco arricchisce così il suo patrimonio fondiario ed immobiliare ricevendo un giardino in contrada Limma, un altro, alberato di gelsi, ulivi ed altri alberi fruttiferi in contrada S. Andrea, numerosi vigneti in località Tracale con loggia e palmento ed alberi di pero e di fico, una casa terranea “con suo orticello aderente” sita e posta dentro il casale di Mosorrofa. Terre aratorie in contrada lo Campo e Crucivia, altra vigna in località Cucco, “la metà di una vigna arborata, di ficare, gelsi et altri alberi fruttiferi nella contrada Carbone limitante con il fiume pubblico” e, ovviamente anche la casa terranea dello Strapunti dove al presente abitano.

Nell’atto notarile, quindi, i coniugi, volontariamente e senza pronunciare voti, pur rimanendo nel loro rispettivo villaggio, chiedono di fare parte di quest’ ordine religioso come dei laici che vogliono vivere secondo i dettami evangelici, sottolineando la particolare devozione che hanno sempre portato al venerabile convento di S. Francesco d’Assisi, poiché, intendono servire Iddio e “godere delle preminenze, privilegi e costitutioni che hanno goduto e godono tutte le persone oblate”, nonché  vivere quietamente e pacificamente senza pericoli.

Passano però diversi anni, anche troppi, e il sacro edificio non è completato. Lo possiamo dedurre dal fatto che nel 1738 la venerabile chiesa di S. Antonio di Padova risultava ancora “non fornita”.  Priva cioè di arredi sacri e altari ma soprattutto senza i fondi necessari per mantenere un sacerdote che ne curasse la gestione e il mantenimento del culto. Da ciò si deduce che l’edificio ancora non era stato consacrato.

Nel 1743, una terribile pestilenza colpisce la popolazione. Ciò probabilmente, sarà la classica goccia che farà traboccare il vaso. I frati, infatti proprio in quell’anno rinunciano al completamento dei lavori che ormai si protraevano a singhiozzo da più di quaranta anni e, per nome del nuovo reverendo Padre guardiano D. Orazio Griso decidono di vendere l’immobile, per la somma di circa 20 ducati a Ettore Melacrino, esponente  del patriziato santagatino, il quale ne cambierà, con ogni probabilità, la destinazione d’uso trasformandolo, in abitazione privata o utilizzandolo forse come deposito per le tante derrate provenienti dai suoi numerosi possedimenti terrieri nel circondario  Mosorrofano. A tal proposito ci viene in soccorso un altro documento notarile in cui viene menzionata una torretta con casa attaccata alla medesima, di sua propietà, “che sta sita, e posta dentro il casale di Mosorrofa nel luogo detto la Croce”. 

Da allora non si hanno più riferimenti alla chiesa. Nè tantomeno viene menzionata nelle visite pastorali o nei protocolli notarili.

Nel frattempo i coniugi Vazzana, sono passati a miglior vita. Addirittura, Alfonsina “dopo aver ricevuto tutti li Santi Sacramenti” muore il 17 settembre del 1730 alla veneranda età di 115 anni!  Un traguardo da Guinness World Record, che non le consentirà però di vedere realizzato quello che, pazientemente, aveva aspettato per anni e, il suo corpo, assieme a quello del marito, che l’aveva preceduta tanto tempo prima, troverà temporanea sepoltura, come tutti gli altri “comuni mortali” all’interno della chiesa Parrocchiale di Mosorrofa in attesa di essere traslato e trasportato nel convento di S. Francesco d’Assisi di Reggio come pattuito nell’ormai lontano 1701 col guardiano Ferrante in caso vi fosse stato “impedimento all’erezione e benedizione di detta chiesa” di S. Antonio.

La longevità di Alfonsina Cicciuni rimane un mistero che solo un test del Dna sul suo corpo potrebbe risolvere una volta per tutte, anche se è ormai impossibile ritrovarne i resti. Il convento, infatti, situato fuori le mura urbiche, nella zona sud della città, nel corso dei secoli ha subito diversi danni dovuti a calamità naturali, e venne completamente raso al suolo dal terremoto del 1908.

Nell’atto di morte, trascritto dal sacerdote dell’epoca Domenico D’Alessandro sul registro parrocchiale dei defunti, l’età di Alfonsina, viene riportata in modo chiaro e leggibile. Senza nessun dubbio interpretativo.   Considerate le aspettative di vita nel XVIII secolo, la donna, all’epoca, potrebbe essere stata forse…la più vecchia del mondo! A supportare la tesi della sua longevità ci viene in aiuto ancora una volta l’atto del notaio Cosentino, stipulato trent’anni prima del decesso della Cicciuni, in cui i due coniugi consapevoli già da allora di essere molto avanti negli anni, si definivano ormai abbastanza “vecchi”.