"Rigettarsi" voce del verbo: "saper vivere"

Nel “vocabolario e frasario Mosorrofano – Santagatino” di Pasquale Crucitti alla voce “rigettu” troviamo : “calma, quiete, requie. Fondo di caffè, cioè la parte che si deposita nel fondo del recipiente quando non lo si agita.” Più specifico è il verbo “rigettarsi”: “ calmarsi, quietarsi; darsi ricetto; finirla di agitarsi; dare fine alla propria furia, alle proprie velleità di forza e di potenza. ( u zi Dimitri si voli mentiri mi faci a cursa ch’i giovanotti; non va mi si rigetta e mi si cura a brahagna!)”. In Italiano invece foneticamente, il verbo più vicino al dialettale “rigettarsi” è rigettare: “gettare indietro, respingere”( Treccani ). Verbo che si discosta dal significato che invece dà il nostro parlare. In italiano esiste un'altra parola poco usata che però è molto antica, sto parlando del “ricètto”: der. di  recipĕre  “ricevere, accogliere”, part. pass. receptus) che, oltre al sign. concreto di “rifugio, ricovero”, aveva quello astratto di “ritiro, ritirata, revoca”. Il ricetto in epoca mediavele era un villaggio fortificato che serviva non essenzialmente per abitarvi ma per mettere al sicuro il raccolto, l’olio, il vino e tutte quelle cose che in caso d’attacco nemico potevano essere oggetto di bottino. Avveniva che in caso di pericolo la popolazione delle campagne si rifugiava nel ricetto per quietarsi lì. La cosa particolare che distingue il ricetto da un qualsiasi altro tipo di fortificazione è che appartiene alla comunità tutta e non al singolo signore del feudo.  Un esempio chiaro è ancor oggi conservato in Piemonte, il famoso ricetto di Candelo (BI). Ricetto quindi ha tutta un etimologia legata al bisogno di fermarsi, al bisogno di un momento in cui rifugiarsi dal normale scorrere della quotidianità. Quel nostro “rigettarsi” rientra nella forma di quest’assunto. Come facevano i contadini medievali quando la loro vita era in pericolo così i nostri avi facevano, arrivati ad un punto limite della propria vita. In quei momenti in cui la finitezza umana mette davanti dei limiti allora la prima parola era: “ megghiu mi mi rigettu” , meglio che mi ritiro, meglio che mi rifugio da un qualcosa che è oltre le mie possibilità. Il mondo di oggi ci appare facilmente senza limiti, pare che con il denaro possiamo permetterci tutto, l’uomo sembra proiettato (apparentemente) verso un progresso eterno. La propensione alla scoperta e al superamento del limite intrinseco nella natura umana ha spinto la scienza ad essere in continuo mutamento ma il futuro non può essere solo progresso e ampliamento del limite, perché è anche insicurezza, è anche angoscia. L’uomo ha il potere di scoprire e di creare ma anche quello di autodistruggersi. Ognuno di noi dovrebbe essere capace di comprende qual è la propria soglia limite, in amore, nel lavoro, nello stare con gli altri. “Una persona senza limiti diventa il limite di sé stesso.” La consapevolezza dei propri limiti è la stessa consapevolezza generale che ci permette di capire che per natura siamo limitati e la morte terrena è lì per ricordarci questa finitudine. L’unico modo di andare oltre i limiti è conoscere i propri limiti, quello stesso modo che ci fa dire “rigettati”. Quindi “siate audaci, ma usate la testa” come dice Platone : “ quando un uomo è audace senza senno ne riceve danno, quando invece con senno ne trae vantaggio”. Seguendo il ragionamento di Galimberti; per Aristotele lo scopo della vita è la felicità ( eudaimonia ), ciascuno di noi ha una virtù (capacità) per raggiungerla a suo modo. Come faccio a conoscere la mia virtù? Qui risponde l’oracolo di Delfi: “conoscendo te stesso” ( ossia realizzando te stesso ) e “secondo misura” ossia cercando di capire i limiti della propria persona, trovando la nostra personale misura. Secondo Aristotele solo facendo ciò potremmo essere felici. I greci lo avevano detto molti secoli fa ma lo abbiamo facilmente dimenticato. Eppure i nonni son lì a dire ai nipoti “rigettati” , a loro che essendo piccoli non conoscono ancora i limiti della loro esistenza. I greci avevano il senso della misura e lo vediamo bene nei loro capolavori che ci suggeriscono di non oltrepassare la nostra misura personale, cercando di capire anche quando rigettarsi. L’uomo non è dotato dell’onnipotenza, non può prevedere il suo futuro, ma può decidere come vivere il suo momento. “So di non sapere” perché riconoscere la propria ignoranza, riconoscere il proprio limite, riconoscere il momento in cui dire mi devo “rigettare”, è essa stessa acquisizione di una conoscenza ancora più grande. Dovremmo forse vivere  cercando di capire anche quando  “rigettarsi”.