Storie e misteri della contrada Tracale

Sulla parete esterna di un antico casolare di Tracale, contrada a nord-est del paese, è incisa una data racchiusa in un rettangolo: 1756. Il fatto che la costruzione sia curiosamente sopravvissuta ad eventi tellurici come quelli del 1783 e del 1908 è abbastanza singolare e ci fornisce dei buoni motivi per indagare sulla storia di questa amena località, situata lungo uno stretto crinale circondato da ridenti colline. Il luogo, che sebbene disabitato, mantiene tuttora le caratteristiche di un piccolo borgo rurale, era popolato da poche famiglie che si occupavano principalmente di lavori agricoli ed era attraversato da una mulattiera che nel corso dei secoli è stata battuta da uomini e animali da soma. Una grande macina in pietra granitica, posizionata in verticale all’interno di un vecchio frantoio, rimane la muta testimone di un’antica tradizione olearia ormai scomparsa. Nelle vicinanze, seminascosta tra i rovi è ancora invece visibile un’aia circolare dove nelle ore più tarde della giornata i contadini aspettavano la tramontana per “ventilare” il grano e liberarlo così dalle scorie.

Una fontanella di semplicissima fattura da dove l’acqua forse non ha mai sgorgato, completa il quadro del paesaggio. Lo stesso che, negli anni Ottanta, l’artista Verbaro, insegnante presso la scuola media di Mosorrofa, immortalò in una tela poggiata sul suo cavalletto che io, da bambino, trasportai a spalla lungo l’erta salita che iniziava dalla fiumara, alternandomi con un mio compagno di classe.

In un punto sporgente e roccioso, poco prima di raggiungere il piccolo nucleo di case, in seguito ad una visione mistica è stata edificata una cappelletta votiva racchiusa in un recinto

La località era anche famosa per la presenza di un toro da monta di buona razza che il proprietario, soprannominato Liccio, teneva in una stalla, alimentandolo abbondantemente, e grazie al quale faceva buoni affari per le numerose mucche che venivano lì condotte per gli accoppiamenti, le cui giornate erano minuziosamente annotate in un registro che custodiva gelosamente.

Si racconta che il muggito di quel del toro, soprattutto durante le ore notturne, facesse sobbalzare i passanti rievocando le stesse paure che i cretesi avvertivano quando si trovavano nei pressi del celebre labirinto dove era stato relegato il famigerato Minotauro.

Di un “loco dicto Traclari”, si parla già in una pergamena del 1355. Il toponimo dall’etimologia incerta è sopravvissuto fino al XIX secolo, per poi trasformarsi in Tracali.

Per tutto il Seicento ed il secolo successivo la zona si caratterizza per la presenza di alberi di gelso, ulivo, quercia, castagno, noce, ciliegio, fico, pero, sorbare. Tutte piante che ancora oggi fanno parte del paesaggio agrario.

Nel 1625 è documentato un casaleno, ovvero una casa diruta e nel 1653, una casa terranea. Di quest’ultima risultano proprietari Marco Antonio Vazzana e il figlio clerico Antonio della città di S. Agata. Dal catasto murattiano di inizio Ottocento risulta un’abitazione del marchese Antonino Sarlo. Nel 1701 è attestato un palmento adibito alla pigiatura ed alla fermentazione del mosto in quanto sono presenti alcune vigne come ad esempio quella che nel 1638 Giorgio Ciancia del casale di Mosorrofa consegna per 15 ducati a Demetrio Flavia, limitante con quella di Orazio Bruno e “apprezzata” dall’agrimensore Morabito.

In un contratto d’affitto del 1778 Angelo Casile del fu Antonino si obbliga di pagare e corrispondere annualmente al priore della Venerabile Cappella del Santissimo Sacramento della città di S. Agata 54 ducati e dieci grana per un terreno che “come diligente colono e padre di famiglia” si impegna a coltivare ogni anno, “tirando” le conche a tutti gli alberi minuti presenti in detto giardino ed incontagliarli. Alla fine del quadriennio dovrà riconsegnare le cannizze e tutto l’altro armaggio del nutricato, ovvero il materiale che serve per l’allevamento dei bachi da seta, nella maniera stessa che lo aveva ricevuto. Tra le altre clausole deve continuare a mantenere chiuso il detto giardino, nonché potare e rimondare gli alberi di gelso e le ficare senza pretenderne i rami che cadranno a terra da tale operazione.

Volendo poi immettere degli animali a pascolare, l’affittuario sarà tenuto al pagamento dei danni che essi cagioneranno. Nè tantomeno potrà seminare lupini e, casomai decidesse farlo, “li debba a tempo proprio battere”. Gli viene anche vietato di estirpare dalle radici le frasche che si trovano nei sentieri, tranne solo dove recano pregiudizio alla coltura della terra; come neppure potrà smargiare (estirpare) e zappare nei luoghi a pendio. In caso “di annata sterile ed infruttuosa, che non voglia Iddio avvenisse”, non dovrà pretendere scomputo per l’affitto.

Nel 1784 Domenico Federico, benestante santagatino, prende in affitto, sempre a Traclari, un vasto terreno di 12 quattronate (circa 13.731,24 metri quadri) con 63 piante di gelso, 96 piante di ulivo, 50 ficare, 40 rovori grandi e piccoli ed altri alberi, più “due case di nutricato e li vermi della seta”. Il tutto è limitante da scirocco con la via pubblica, da montagna con i beni del fu notaio Antonino Iero, da borea con il vallone, da marina con Giuseppe Monorchio. Tra le condizioni poste nel contratto, il terreno non deve essere stracaricato in seminatura duplicata e con semenza pregiudiziale alla medesima e agli alberi con lente nere, lino e fagioli in modo che non si reducesse pauperata ed infeconda. L’”acconcio” della casa deve essere poi fatto a sue spese.

Nel corso dei secoli non sono però mancati episodi di cronaca che hanno turbato le atmosfere bucoliche del luogo. Nel febbraio del 1865, un suo discendente omonimo, Domenico Federico, il giorno prima del suo decesso era stato a pranzo nel casino di contrada Tracale assieme ai coloni di quei fondi. Secondo i testimoni “si era divertito molto giungendo fino a ballare”. L’uomo, di circa 34 anni, aveva i capelli rossicci ed eccedeva sovente nel cibo e, “si riteneva per un uomo ghiottone”. Si disse che aveva ecceduto nel mangiare carne porcina bollita nella insugna. I famigliari avevano avanzato il sospetto che fosse morto per un presunto avvelenamento, facendo riesumare il cadavere che era stato seppellito in una cappella gentilizia presso la sua tenuta in contrada Trapezomata ma l’esame autoptico smentirà tale ipotesi.

Il 17 febbraio del 1885, nella stessa contrada Tracale, alcuni individui che passavano sulla pubblica via, avendo visto una cagna vagante che presentava i sintomi della rabbia minacciando di morderli, emisero grida di spavento chiedendo a Giuseppe Artuso di Pasquale, che dimorava nella sua abitazione lì vicino, di accorrere ed uccidere l’animale. Alle reiterate richieste, l’uomo si sporse alla finestra della sua abitazione e con un colpo di fucile che teneva in casa, uccise la cagna suddetta, che poi si verificò appartenente al querelante Carmelo Mezzatesta. il quale si era appellato presso la Pretura di Gallina affinchè fosse risarcito.

Nel 1885 viene denunciato un furto di ulivi nella proprietà del Marchese Antonio Sarlo, mente quattro anni dopo, nel mese di novembre, Giordano Demetrio “juniore” fu Angelo di anni 16 e Giordano Demetrio “seniore” fu Angelo di anni 60 sono costretti a pagare lire cinque di ammenda ciascuno per aver commesso dei danni mediante recisioni di rami nel fondo appartenente a Demetrio Iero.

Sempre nella seconda metà dell’Ottocento si registra un episodio di violenza carnale che vede coinvolta una giovane contadina. Un ricco possidente rimasto impunito, con la sua autorità prevaricatrice, aveva approfittato della situazione di svantaggio in cui si trovava la povera donna.

Tracale, insomma, è un luogo con sedimentazioni di storie che forse valeva la pena raccontare.