Un atroce misfatto in località "Praca"
La sera del giorno sei gennaio del 1849 verso le ore 24:00 Giuseppe Fortugno chiudeva le pecore in un recinto e raccomandandone la vigilanza al Giuseppe Trunfio, si avviava verso casa unitamente al compagno Salvatore Libri. Il Fortugno ed il Libri erano pastori addetti all’ovile di Ettore Melacrino in contrada Placa del Paese di Mosorrofa. Entrambi, dopo aver mangiato, all’una circa mossero nuovamente per l’ovile ove giunti si occuparono dei servizi e li ebbe luogo una tragica scena. Il Fortugno “veniva colpito barbaramente da una palla infuocata ed altri proiettili e riportava ferite mortali”.
La voce pubblica attribuiva il misfatto al giudicabile Demetrio Cutrupi, il quale possedeva un fondo nella stessa contrada Praca e “geloso delle sue proprietà e ad ogni benché minimo danno si abbandonava alle più estreme eccedenze, cosicché era temuto ed odiato comunemente per codeste sue pessime qualità”. Ed infatti il giorno tre gennaio dello stesso anno, quindi tre giorni prima del tragico evento, il Cutrupi, sorprese il gregge affidato alla custodia del Fortugno e del Libri pascolare abusivamente sul suo fondo e gli gridò contro tanto che il Fortugno giunse nell’immediatezza, promettendo di pagare il danno, giusta l’estimazione a giudizio dei periti. Il Cutrupi però così gli rispose: “Non voglio stimatori nelle mie terre, la stima me la farò colle mie mani”. Il Fortugno con parole pentite replicava a sua volta “se mi vuoi ammazzare, ammazzami”, ma il Cutrupi dava fine alla contesa concludendo “sei calzato, ed io debbo calzarmi…”, volendo con ciò significare che il Fortugno, in quel momento era armato di scure e lui era inerme.
In un’altra circostanza, alla presenza dei coniugi Sebastiano Porcino e Francesca Casile per simile danno diceva al Fortugno: “Cornuto, li ficarazzi li chiantai per tia, non dubitare che dalle mie mani mori, non passa assai”. Inoltre il giorno prima del tragico evento, dalle parole del Fortugno all’amico Sebastiano Trunfio anche lui di mestiere pastore, si avvertiva il timore dello stesso, il quale gli diceva: “Io sono diligente nel menare pascolo e con particolarità nei terreni del Cutrupi”. Il Trunfio, non capiva il linguaggio misterioso del Fortugno e lo invitava ad esprimersi meglio. A quel punto la vittima gli narrò il fatto del danno con tutti i suoi particolari.
Il testimone Paolo Margiotta discorreva con Angelo Giordano e con i coniugi Bruno Surace e Maria Casile e sosteneva che la sera dell’evento mortale incontrò in località “Arenazza” il Cutrupi armato di fucile avvolto nel mantello, il quale “calcava” la strada che conduceva al luogo dell’omicidio e che mezz’ora dopo circa, udì l’esplosione di un’arma da fuoco. Questa stessa dichiarazione venne poi confermata anche dalla Morabito Anna, la quale però ritrattava successivamente. Tuttavia, durante il corso dell’istruttoria la stessa Morabito, faceva presente al Giudice che quella ritrattazione era stata l’effetto delle minacce che il Cutrupi le fece giungere per mezzo del germano Giovanni il quale, per spaventarla, le disse: “bisogna giuntare il vivo e non il morto, altrimenti mio fratello, uscendo dal carcere, ti ucciderà”.
Subito dopo il tragico evento, il Libri accompagnava le Guardie Urbane sul luogo dell’omicidio ed immediatamente vi giungeva anche il Cutrupi il quale gli disse: “Ringrazia Dio che eri seduto, perché se eri all’impiedi come cadde il morto, saresti caduto anche tu”. Secondo la deposizione del Libri, il Cutrupi però, non sembrava tranquillo di spirito tanto che nel corso di quella lunga notte fece mille domande e faceva notare alle Guardie “non credete che senza far nulla l’hanno ucciso, e senza aver commesso qualche danno”. Passato un anno, il Cutrupi cadde in recidiva e nel settembre 1850, per cagioni di danno nel suo fondo, venne a briga con il pastore Bruno Ripepi, gli impugnò il fucile ed in atto di sparare gli disse: “uno ed uno due”, espressioni dalle quali si comprese che egli aveva dovuto sparare precedentemente a qualche altra persona. La Gran Corte Criminale di Reggio, dopo un maturo esame, formulò le seguenti considerazioni: - siccome dalla prova generica risulta che il Giuseppe Fortugno venne ucciso da un colpo di arma da fuoco di grosso calibro, e che tale colpo fu sparato con la mano manca. Che, il giudicabile Cutrupi è mancino allo sparare - che egli è un uomo malvagio, geloso dei suoi fondi ed estremamente vendicativo per qualsiasi danno possa patire – Che, il Fortugno gli commise danno con gli animali nel fondo sito nel luogo Praca – Che, per questa cagione, all’offerta di pagare il danno, il Cutrupi rispose con gravi minacce – Che, il Fortugno gli offriva in soddisfazione di altro danno due carlini, ma il Cutrupi pronunciava contro di lui “non è questione di due carlini, è robba di valore e fra qualche giorno ci vedremo là” – Che, l’abitazione del Cutrupi è a piano terreno quasi in mezzo al paese di Mosorrofa. Dalla stessa dopo non molti passi dalla parte d’oriente si esce subito in campagna e per la parte opposta, dove esiste la pubblica strada, che traversa una buona parte del paese, si va fuori dopo duecentoventi palmi. Tale abitazione è distante solo 3350 palmi dal luogo dell’omicidio, seguendo la pubblica strada e, battendosi le campagne a sinistra si abbrevia il cammino, il quale è quasi in linea retta. Che, dal complesso di tutti codesti elementi così precisi e concordanti sorge luminosa la realità del Cutrupi. Per quel che attiene alla premeditazione, invece, la Gran Corte Criminale respinse tale aggravante, in quanto solo nel momento in cui vide il Fortugno andare nell’ovile, il Cutrupi si armò di arma e corse per la strada di compagna per mettersi in agguato e consumare l’omicidio. Pertanto, la Gran Corte di Reggio dichiarava colpevole il Cutrupi a pieni voti e lo condannava alla pena del quarto grado, cioè alla pena dei ferri per anni 27, alla malleveria di ducati 100 per anni tre ed alle spese di giudizio, coll’obbligo espiata la pena di star lontano dal domicilio degli offesi nella distanza non minore di miglia 30 fino a che non otterrà il loro contentamento.