UN MOSORROFANO IN AMERICA O DEL PERDUTO AMORE

Aveva portato con sé una valigia rattoppata e tanta fame, ma anche la ricchezza dovuta alla forza delle sue braccia per svolgere, come la maggior parte degli emigrati italiani, i lavori più pesanti e rifiutati dagli altri.

La moglie Marianna e i due figlioletti li aveva lasciati a Mosorrofa, pensando di poter da lontano aiutare la misera famiglia. Dopo giorni di navigazione sull' Oceano, a bordo di un piroscafo e dormendo in terza classe, su un sacco imbottigliato di paglia, in condizioni pietose e prive d’ igiene, nell’aprile del 1905 era finalmente sbarcato nel golfo di New York, per poi raggiungere Filadelfia con la speranza di far cambiare idea alla fortuna così avara nella patria di origine.

Durante la lunga traversata, all’età di 36 anni, si era domandato più volte, se quella che stava facendo poteva essere davvero la strada che avrebbe risolto i suoi problemi, quella che gli avrebbe permesso di trasferirsi con l’intera famiglia o di tornare in patria dopo aver lavorato e guadagnato abbastanza da sopravvivere.

L’unica cosa che lo confortava sarebbe stato sicuramente quel ricco patrimonio di calore umano dovuto alla presenza di altri paesani che lo avevano preceduto. Proprio in quei primi anni del secolo, infatti, la maggior parte dei mosorrofani della “Grande emigrazione” si era concentrata soprattutto in Nord America, affamato di manodopera.

Dopo aver trovato posto in uno di quegli alloggi promiscui e fatiscenti, concessi in affitto dagli speculatori a prezzi esorbitanti, doveva fare i conti con le differenze linguistiche tra il suo dialetto e la lingua del nuovo mondo che erano però abissali. Per farsi capire più facilmente si aiutava molto con i gesti delle mani, con la mimica del viso e, principalmente, con gli occhi.

Intanto, nel piccolo paese, la condizione di donna sola aveva esposto la compagna al rischio di essere considerata come facile “preda”. Senza che lui fosse al corrente di nulla, qualcuno vigliaccamente non tardò ad abusare del suo onore, approfittando della debolezza e della miseria della donna amata, e chi aveva poi trovato il coraggio di scrivergli una lettera in America tenne sempre ostinatamente celato il nome del colpevole.

Appresa la notizia, quel senso dell’onore, di cui era intrisa la cultura in cui era cresciuto, persino fuori dalla realtà in cui era maturato, palesava adesso la sua validità.

Il nomignolo dagos, con cui venivano designati gli immigrati italiani, che evocava il pugnale, cioè la violenza e l’incapacità di controllare l’esplosione della rabbia e della passione mai come adesso sembrava più appropriato.

Ad aggravare la situazione era poi il fatto che, dopo quella relazione adultera, avvenuta forse per il peso della solitudine o forse per il dubbio che “la rondine non sarebbe ritornata al suo nido”, Marianna era rimasta ingravidata. Per la vergogna e la paura della reazione di parenti e paesani aveva nascosto il suo stato ricorrendo ai più svariati mezzi. Il parto di un figlio illegittimo l’avrebbe condannata alla rovina. Cercava quindi di non esporsi alle osservazioni e ai commenti che la vista del proprio corpo poteva suscitare, soprattutto quando usciva di casa per andare a Reggio a vendere i mazzetti di origano.

Ma ben presto il peso della colpa e della responsabilità che sarebbe ricaduto esclusivamente su di lei la portarono a commettere l’infanticidio. Venne tratta in arresto dai carabinieri di Cataforio i quali, perquisendo il soffitto della sua casa, tra sacchi contenenti castagne e qualche recipienti di fagioli secchi, avevano notato un largo vaso di creta, dove la donna, prima di disfarsene, aveva nascosto il piccolo corpo della sua creatura.

Nel frattempo un’altra serie di sventure contribuivano ad infrangere “Il sogno americano” di Demetrio. Dopo pochi mesi, infatti venne colpito da una grave malattia agli occhi e successivamente, lavorando ad un congegno meccanico, aveva subito un incidente ad un braccio che gli fece perdere il posto. Non appena la carità dei suoi connazionali riuscì a dargli i mezzi per il viaggio di ritorno, rientrò in Italia, trovando la moglie già inviata alla Corte d’Assise e i figlioletti abbandonati a sé stessi. Era il settembre del 1906.

Arrivato in paese si era adoperato con tutta l’anima per scoprire chi fosse stato l’“infame”, ma tutti tacevano e fingevano di ignorare.

Solo verso i primi di novembre, si cominciò a sussurrare che un suo compaesano di nome Nino che era tornato mesi fa dagli Stati Uniti fosse stato il seduttore della moglie. Fu forse per questo motivo che per un attimo aveva anche pensato di rivolgersi alla famigerata Mano Nera, un’organizzazione criminale controllata da immigrati italiani e alla quale era affiliato anche qualche compaesano di sua conoscenza.

I sospetti si confermavano e divenivano prova certa sempre di più. Il suo desiderio di vendetta sfuggiva ad ogni contenimento perché lo si riteneva giusto e legittimo fino a caratterizzarsi come un diritto. Solo in questo modo poteva essere azzerata la vergogna e il disonore.

I tristi propositi che lo assalivano, trovarono però un ostacolo quando, vedendo la sorte già abbastanza infelice dei suoi figli si convinse di affidarsi nella giustizia dei magistrati, riservandosi la costituzione di parte civile ed insistendo per una punizione esemplare all’autore del misfatto che, con volgare ingegno aveva approfittato della sua compagna.

La donna, vista dal tribunale più come vittima che come criminale, aveva commesso quel reato per paura del destino crudele che la avrebbe attesa a causa di quella maternità socialmente proibita.

In una realtà legata a ruoli codificati e sedimentati in secoli di storia, nonostante tutte le sventure, Demetrio e Marianna, tornarono a vivere insieme, ma solo per pochissimo, fino a quando i loro corpi saranno estratti dalle macerie del terremoto del 1908.

La storia narrata, è stata possibile ricostruirla, grazie ad una lettera autografa del protagonista, il quale al tempo stesso ne costituisce anche la fonte principale. L’ho trovata allegata agli atti di un processo, conservati presso l’Archivio di stato di Reggio.

Mentre stavo per chiudere la finestra di una stanza, la lettera, che all’epoca mi ero premurato di trascrivere e alla quale non avevo fatto più caso, è stata trasportata da una folata di vento sulla mia scrivania, forse caduta da uno vicino scaffale dove era accatastata, assieme ad altri documenti sistemati in un faldone aperto. A quel punto ho capito che la storia “voleva” essere raccontata.

Ho volutamente omesso di trascrivere i cognomi dei protagonisti lasciandone invece inalterati i nomi. La vicenda umana, che mi ha particolarmente colpito, ha come sfondo quel fenomeno che si verificò in maniera preponderante, anche nella nostra piccola comunità, dopo l’Unità d’Italia con la prima ondata migratoria, dettata dalla crescente povertà. Una storia che mette anche in luce i drammi vissuti dalle “vedove bianche”, cioè di quelle donne che rimanevano con i figli, mentre i mariti espatriavano all’estero.